martedì 20 novembre 2007
Cartesio e l'Islam
Le continue polemiche scatenate da Tariq Ramadan, sono alimentate più dalle sue ambiguità di comportamento che dall’approccio teorico che vorrebbe propugnare. In maniera molto semplicistica vorremmo riassumere. La rimonta islamica cominciata con la crisi nasseriana e del modello laicista di stampo europeo, ha avuto alcuni passaggi chiave. Il primo l’abbiamo citato e ha causato la svolta “radicale” del movimento dei Fratelli mussulmani in Egitto, con Sayyd Qutb; il secondo è stato la rivoluzione komehinista che ha portato lo sciismo musulmano a fare i conti con la gestione politica del potere (negata dalla tradizione duodecimana). Il tentativo di Nasser di strumentalizzare l’islam presentata come «religione socialista», partendo dalla radice razionale e priva di «misteri» che la caratterizza, fallisce, accompagnata da una durissima repressione; Qutb sarà giustiziato nel 1966. Con il khomeinismo cresce lentamente il concetto di religione-mondo applicata alla politica dell’universo sciita che creerà strutture e istituzioni più adatte al radicamento sociale nell’islam moderno e «infelice». Ma veniamo ai punti di contatto fra «modernità», intesa secondo i canoni occidentali, e alcuni passaggi della «filosofia» islamica. Qutb cita la «perfetta uguaglianza umana e la ferma solidarietà sociale», ma legge l’Occidente come empio e corrotto. Il tunisino Rashid al Gannushi, al contrario ha studiato la filosofia occidentale e percepisce quest’ultima come un «contrappeso ideologico alle dottrine islamiche» (da «Arcipelgo Islam», di Mezran-Campanini, Laterza editore) e lavora ad una ridefinizione dell’identità arabo-islamica che riesca a declinare modernità e religione. Anche lui finisce però giustiziato nel 1987. Possono essere due campioni fra posizioni “radicali” e “moderate”, mettendo il quaedismo nella casella dell’ultraradicalismo. Però entrambi sono violentemente anticapitalisti, sinceramente antisionisti, anche se il secondo non parrebbe venato di antisemitismo. Il nodo, come viene spiegato nel capitolo sulla Weltanschauung islamica del libro «La Difesa dell’Occidente» (Liberal edizioni) è nella visione antropologica della cultura musulmana, dove l’individuo è subordinato alla comunità e il concetto di libero arbitrio e sinceramente reso problematico da alcuni passaggi teologici, se così possiamo definirli. Il primo è il valore legale delle preghiere e l’origine rivelata del diritto. Il secondo e la sostituzione della formula ebraicocristiana «uomo-Dio» in quella di «uomo-vicereggente di Dio», con tutto quello che ne consegue dal punto di vista della filosofia «politica». Dal Dio incarnato e rinnegato fino alla Croce, al Dio solo trascendente, ma senza «misteri», corre il confine e la possibilità di un futuro dialogo fra i due mondi. Dal Dio-Uomo deriva l’antropocentrismo occidentale, dalla «follia della Croce» il concetto del libero arbitrio. Dall’uomo reggente di Dio deriva invece un’impostazione «suddita» della persona, dove la comunità prevarica l’individuo, più vicina alla sociologia marxista che alla contrattualistica lockiana. Né la natura razionale dell’Islam ha prodotto pensatori come Cartesio, con buona pace per al Wahab. Anche se la definizione della società musulmana come prewestfalica può avere dei limiti, difficilmente potremo equiparare i frutti politico-istituzionali che ne sono derivati. È vero che sotto il regno Omayyade e poi Abbaside le funzioni politiche e religiose furono separate e non si ebbe più la sovrapposizione fra capo dello Stato e vicario di Dio sulla terra, ma questo non produsse un’evoluzione, solo un cambiamento. La lotta fra califfi e ulama, vide vincenti i secondi. I califfi diventavano così dei semplici custodi dell’ortodossia delle leggi islamiche. Questo però non è imparentato con la separazione fra «Trono» e «Chiesa» da cui derivò, nel tempo, il costituzionalismo parlamentare, ma semplicemente il risultato di una lotta di potere tutta interna alla cultura teologica dell’Islam. Dove invece ci sarebbe la possibilità di scovare dei punti di contatto «fertili» è nel contagio con la filosofia greca, passata in Occidente attraverso Avicenna con le sue opere su Aristotele, arrivati a noi attraverso i commentari di al Farabi. Ma sarebbe un’operazione a freddo, che non tiene conto del «caldo» revanchista di un’Islam per troppo tempo tenuto all’angolo dal finto modernismo d’importazione. Un bigottismo laico, da tempo in crisi anche in Europa, che non ha più alcun appeal presso le classi dirigenti arabe e mediorientali. È comunque la strada da seguire, in attesa di una Nahda (rinascita) culturale anche in Occidente.
giovedì 11 ottobre 2007
Che dicono i «volteriani»?
Ernst-Wolgang Bokenforde è il padre di un paradosso. È tedesco ed è figlio della Germania postbellica, dove si è cercato in ogni modo di costruire un’architettura dello Stato che non avesse i difetti e le fragilità della repubblica di Weimar. Si è cercato in un modello di Stato che viene chiamato «liberale» - ma che è frutto di una certa ideologia continentalista- il soggetto garante di un’alleanza fra «Trono» e «Chiesa». Secondo la corrente dei difensori del laicismo europeo, convenuti in un’interessante incontro al Centro studi americani e coordinato dal direttore di Reset, Giancarlo Bosetti – promotore della messa all’indice di Magdi Allam - non siamo in una società post-secolare, ma pre-secolare. Se qualcuno avesse avuto dubbi circa il futuro dell’oltranzismo laicista, avrebbe potuto toccare con mano teorie e teoremi sull’astrazione di un certo mondo accademico dalla realtà. Intendiamoci, molto sono state le analisi di grande interesse, per prima quella del protagonista che ha proposto un modello di laicità aperta (quella tedesca) in contrapposizione ad una versione chiusa (quella francese pre-Sarkozy, aggiungiamo noi). Tesi interessante perchè apre un dialogo sui modelli continentalisti rispetto a quello angloamericano – peraltro sviscerato dall’intervento di Emilio Gentile. «America religiosa vs Europa secolare», un’altro paradosso dove i nipoti dei padri pellegrini sarebbero più laici in quanto più religiosi. In effetti il 90 per cento degli americani si dichiarano credenti e sulle stesse percentuali voterebbero per un candidato alla Casa Bianca cristiano, ebreo o musulmano, ma solo il 15 per cento lo farebbe per un presidente ateo. E si «riciccia» la storia della religione civile o «deismo cerimoniale». Insomma tutta una serie di disquisizioni che dimenticano che l’invenzione – se così possiamo definirla – della separazione fra Stato e Chiesa nasce dalle parole di Gesù: «date a Cesare quel che è di Cesare...». Vabbé, ma non possiamo stare a sottilizzare. Comunque non si è capito dove sia il confine che, all’interno dello spazio pubblico, delimita l’area fra determinazione culturale e determinazione politica. Quale è il discrimine fra il riconoscimento delle differenze culturali, come componenti di una società plurale ed il loro effetto politico che ne modificherebbe la natura. Facciamo un esempio. In Turchia, nelle Università, è proibito portare il velo tradizionale. Allora molti ragazzi utilizzano varie forme d’abbigliamento per far capire che sono credenti. Vogliono occupare lo spazio pubblico, come determinazione culturale, ma soprattutto come azione «politica» che può portare a modifiche delle leggi dello Stato. I difensori dello Stato neutrale, del recinto all’interno del quale ognuno può liberamente professare la sua fede o non fede, mancano di confrontarsi con questa realtà. Teorizzano, in astratto, la giustezza di una democrazia procedurale e guardano con sospetto alla proposta di Bokenforde, che almeno ha il merito di aprire una porta all’importanza della «tradizione» rispetto ai modelli politici. Qualcuno ha anche riproposto la visione risorgimentale del conflitto fra Stato liberale e Chiesa... Mah! È come parlare di «habeas corpus» e del diritto di Giustiniano, in linea di principio è corretto, ma chiama qualche sbadiglio. Comunque a Colonia, che ha una comunità islamica di mezzo milione di persone, hanno trovato la soluzione. I due minareti di quella che sarà una delle più grande moschee d’Europa dovranno avere un’altezza adeguatamente più bassa (55 metri) delle guglie gotiche del Duomo.
mercoledì 19 settembre 2007
Glucksmann e i cattivi maestri
Nell’interessante querelle sui cattivi maestri - è lecito, utile e auspicabile dialogare con gli intellettuali islamisti? - mancava alla lunga lista di nomi già intervenuti nel confronto delle idee, André Glucksmann (Corsera 19/09/07). Uno dei pochi intellettuali francesi scesi in campo a difendere prima Benedetto XVI a Ratisbona, poi il povero Redeker. Il contributo è stato fondamentale nel sistematizzare e dare le casacche alle squadre in campo. Le posizioni occidentali hanno delle differenze non da poco. In pratica per Glucksmann, i combattenti in campo occidentale si dividono in volterriani, come la Ayaan Hirsi Ali – l’olandese di origine somala riparata negli Usa - che esprimono un orgoglio laico con un grado d’intolleranza pari a quello dei musulmani radicali. Per questa corrente di pensiero ogni religione è nemica della modernità. In Francia il nostro annovera Pascal Bruckner in questo team. Poi ci sono gli intellettuali di tradizione anglosassone (Ian Buruma e Timothy Garston Ash) che forse non ritengono i «fondamentalisti dei Lumi» in grado di volgere al bene il confronto. È «muro contro muro», rispetto ad una visione dell’uomo integralista, da entrambe le parti, parrebbe. Questa cultura legata alla Glorius Revolution, che riuscì a cambiare la società dell'epoca, senza le violente derive giacobine, non ha mai posto Dio fuori dalla storia e non ha mai legato la modernità all’affrancamento dalla religione. Il modello integrazionista multiculturale inglese – oggi in crisi – è cosa assai diversa dalla tipologia francese che già dai «Conseil francais du culte musulman», creati da Sarkozy, puntava al modello di «cittadinanza credente». «C’est un place dans la République» quello riservato all’islam, secondo il nuovo Presidente, convinto che la cultura islamica potesse semplicemente essere rimetabolizzata in salsa «republicain». Bene, per Glucksmann l’approccio anglosassone porta sulla falsa pista dello scontro di civiltà. Per il filosofo francese, l’agnosticismo e il modello volterriano di laicità anticomunitarista – quest’ultimo punto dolentissimo per la tenuta della République – funziona ancora egregiamente. In Francia forse potrebbe ancora essere utile, aggiungiamo noi, se non fosse il rovescio della medaglia dell’integralismo religioso. Perché il confronto è fra due modelli antropologici differenti. In prospettiva, alla polis greca si vorrebbe sostituire la madina islamica. Dove ci sembra che Glucksmann colga lo spirito dei tempi, è nella valutazione del fenomeno terrorista, «quando un uomo che si fa esplodere in mezzo alla folla, si tratta di criminalità umana, troppo umana»; e nel giudizio su di una classe d’intellettuali, «anime belle», con il loro indefferentismo etico «troppo inumano». In ballo non ci sarebbe uno scontro fra culture o civiltà, ma la guerra fra «libertà e schiavitù».
venerdì 7 settembre 2007
Ramadan e la miopia dell'Europa
«Nessun dialogo con i cattivi maestri», sono le parole di Marc Augé, l’etnologo dei «Nonluoghi», che sottolinea l’impossibilità di dialogare con personaggi alla Tariq Ramadan. Non è sorpreso che gli Usa abbiano incluso Ramadan nella lista degli indesiderati e non trova contraddizioni nel fatto che Time l’abbia inserito nell’elenco dei cento intellettuali più influenti al mondo. Spesso l’influenza non è un parametro di merito sufficiente per definire la bontà delle idee e di chi le propugna. C’è quindi chi prende una posizione netta contro certi «pontieri» del dialogo fra Occidente e Islam. Sarà la provenienza francese di Augé, il fatto che senta più di altri il rumore del fiume carsico dell’antisemitismo, che scorre nelle viscere dell’Europa e della Francia in particolare, a rendere il giudizio dell’etnologo meno indulgente verso le ambiguità e le attitudini «missionaristiche» di alcuni intellettuali. La querelle sul potere della lobby ebraica nel mondo, negli Usa e in Francia – con particolare attenzione ai media – è solo un modo per dire alle minoranze ebraiche: piegatevi, quando vi si grida in faccia l’intenzione di annientarvi, non dovete reagire, ma subire supinamente, in silenzio. Una tecnica che spesso viene usata anche contro la Chiesa cattolica.
Manca la «buona fede». Questo è il punto nodale. Augè vede nel tentativo di dare una risposta religiosa ai problemi sociali la strategia infida dell’islamismo. Centra il problema, ma non del tutto. È vero che le banlieu si sono incendiate sulla base in parte di problemi sociali, in parte – forse preponderante – di problemi culturali. Il senso di riconoscimento, l’identità pubblica dei gruppi etnici che si trovano in mezzo al guado. Non sono più e non sono ancora. Non più cittadini dei paesi d’origine, non ancora citoyen della nuova Francia. Sarkozy «non crede ad una concezione settaria o indifferente della laicità, né ad una collocazione della religione in concorrenza con la repubblica» come è descritto nel capitolo «La grandeur di Allah e la ricetta Sarkozy» del libro «La difesa dell’Occidente» di Pierre Chiartano (ed. Liberal con prefazione di Renzo Foa). Ciò che terrorizza il politici transalpini è il comunitarismo islamico che rischia di far crollare le fondamenta dello Stato, con l’uscita di richieste e bisogni della comunità islamica dal circuito istituzionale e sociale. Il radicalismo è la scorciatoia per riempire le teste di una gioventù allo sbando. Non solo, ma l’Europa dovrà riformulare in fretta i codici della proposta culturale, oggi tutta sbilanciata verso un laicismo privo di appeal, non solo per i musulmani. Nello scontro culturale è come se l’Europa continuasse a brandeggiare un’arma scarica, pur avendone a disposizioni molte altre. Dall’altra parte, l’Islam per quasi due secoli ha subito una marginalizzazione, a causa di una cultura importata, che dall’Egitto alla Mesopotamia, trovò poi in Turchia il massimo compimento nel kemalismo. La formula di Ataturk legava la modernità al rifiuto della religione. Oggi quel modello è nell’angolo, è arrugginito. L’Islam guarda all’Europa con grande sufficienza, non ci considera interlocutori all’altezza. Ecco come in un altro capitolo del libro «La difesa dell’Occidente» (Ratisbona ultimo ridotto d’Occidente) viene analizzato il problema.
«L’islam ci guarda con diffidenza, perché? La risposta apparsa sulle colonne del Corriere della Sera (settembre 2006), con le parole del Santo Padre, ricalca la vecchia critica alle società secolarizzate. Il loro conseguente rapporto ambiguo con il concetto di male. Ideologia scientista e cattiva declinazione del verbo della ragione hanno prodotto due effetti devastanti, in Europa come nelle società islamiche che anno subito il nazionalismo di stampo social-baahtista o kemalista. Primo la marginalizzazione dell’individuo in ossequio all’idea, la legge, la sovrastruttura. Secondo, la falsificazione del concetto di verità e di bene. Si è relativizzata la funzione fra individuo e male, deresponsabilizzando il primo si è annullato il secondo o viceversa. I processi di identificazione e riconoscimento delle persone sono stati spostati su concetti terreni. Si è sublimato il fango della razza, della classe o della nazione, ci si è dimenticati della grazia della verità. Fango e grazia sono le componenti dell’uomo e il libero arbitrio è ciò che fa prevalere l’una sull’altro, in una battaglia quotidiana. Dimenticarlo significa perdere l’uomo, che sia cristiano o musulmano» (pg. 190).
È questo un esempio della nuova cifra culturale che l’Europa dovrebbe acquisire per avere speranze di vincere il confronto con i «cattivi maestri». Non è una risposta che deroga alla ragione o al pensiero laico. Non vuol essere un subappalto ideologico alla religione d’Occidente, ma solo l’umile constatazione del cambio dei tempi.
giovedì 6 settembre 2007
RECENSIONE SU INFORMAZIONI DELLA DIFESA. «Efficace, anche per chi non "mastica" la materia»
Sul numero 3/07 della prestigiosa rivista edita dal Ministero della Difesa - viene distribuita in tutte le sedi diplomatiche nel mondo - è uscita la rencensione al libro «La difesa dell'Occidente» (Ed. Liberal con prefazione di Renzo Foa). Al momento non è ancora disponibile la versione on-line della pubblicazione.
Pierre Chiartano ha fatto un viaggio intorno al mondo, spinto dalla «ricerca della verità». Lo ha fatto a bordo di un nuovo mezzo di locomozione: la cultura. Ha lasciato i suoi pensieri in questo saggio, «La difesa dell’Occidente» dove, partendo da una fatidica data, l’11 settembre 2001 – data cui si può attribuire la coniazione del termine «asimmetrico» nel campo dei moderni conflitti – descrive le impressioni e le deduzioni che ha colto visitando l’Europa, l’America, la Cina, il Medio Oriente, Israele, Libano e Afghanistan. Ha guardato in modo laico le posizioni religiose, analizzato da punti di vista alternativi la situazione italiana, nei rapporti con il contesto internazionale di cui, ormai, non si può fare a meno di condividerne i destini.
Ecco che il «mezzo» con cui l’Autore si muove, la cultura, può essere la chiave d’interpretazione del nuovo scenario e può aiutare il lettore ad entrare nei meccanismi, a volte ostici, delle relazioni internazionali, degli equilibri della globalizzazione, e capire che non è sempre vero che le potenze occidentali, con il loro sviluppo tecnologico, siano vincenti contro i sistemi antiquati e imprevedibili dei terroristi e che alleanze subdole possono diventare pedine di un gioco tendente al balance of power. Lo fa con particolare attenzione descrivendo fatti, analizzando situazioni, usando un linguaggio, in forma giornalistica, efficace anche per chi non «mastica» la materia. Se ha torvato la verità alla fine del libro lo stabilirà il Lettore, a me personalmente è piaciuto leggere che, « per uscire dalla sopravvivenza, per costruire una coscienza morale e civica forte, per vivere da uomini...» basta che ognuno, ad ogni livello, faccia il proprio dovere « semplicemente ed umilmente».
link http://www.difesa.it/backoffice/upload/allegati/2007/{B48F46D4-7015-4B64-849E-31F5DB634A5D}.pdf
Ten. Col. Valter Cassar
martedì 4 settembre 2007
L'Occidente dei «pontieri» senza fiume
Tariq Ramadan continua a scatenare polemiche e discussioni. Da ultimi, Paul Bermann (TheNew Republic) e Ian Buruma lo incasellano nella categoria dei personaggi di cultura con cui è bene dialogare. Bermann afferma, tra l’altro, che «dialogare con qualcuno non significa sdraiarsi ai suoi piedi» e Buruma sostiene un fatto ineccepibile, «se oggi ti confronti solo con i laici, non ti confronti con nessuno». Bene, partendo da queste due affermazioni, proviamo ad andare avanti, raccogliendo l’invito dei due esperti. È vero come afferma Buruma che il grande errore dell’Occidente, soprattutto europeo, è quello di continuare a non prendere in considerazione che le bandiere del laicismo – sotto quasi tutte le latitudini – non garriscono più, a causa del vento di scirocco che viene dall’Islam, ma non solo. Pierre Chiartano nel suo «La difesa dell’Occidente» (Ed. Liberal – prefazione di Renzo Foa) spiega, in quasi 300 pagine, come il pendolo della storia abbia girato ancora, come fu al tempo della pace di Westfalia – in senso opposto. È un problema antropologico, di visione dell’uomo che si scontra con la realtà. «In Occidente, come in Oriente è la dimensione trascendente dell’uomo che ha ripreso le redini dell’identità, trascinando una nuova cultura che ha i suoi linguaggi». Pretendere di dialogare con l’Islam usando la vecchia grammatica laicista, che legge l’uomo monodimensionale (solo ragione), è il più grande errore che l’Occidente non può permettersi di fare. Detto questo, però il rischio di fare una frittata, girando la pentola troppo in fretta, è reale. La cultura laicista – Buruma non vi appartiene, perché aveva da anni percepito l’importanza della «polvere di Dio» - potrebbe farsi vincere dai sensi di colpa ed aprire, sì al nuovo dialogo, ma con gli interlocutori sbagliati. Chi scrive ha avuto l’occasione di ascoltare e osservare Tariq Ramadan dal vivo. L’effetto ambiguità che aveva suscitato la lettura dei suoi scritti era, se possibile, aumentato. Riportiamo di seguito un brano che si può leggere integralmente su (http://difesadelloccidente.blogspot.com/2007/05/la-sala-rossa-della-fiera-del-libro-di.html). L’intervento di Ramadan avviene dopo che un’altro relatore ha descritto gli uomini «neri» dell’MI-6 (controspionaggio inglese) nel loro ambiguo rapporto con il terrorismo islamico.
«Ecco, dopo questa preparazione psicologica della platea, si materializza lui, Tariq Ramadan. Appena sceso dalla scaletta di un volo Alitalia, atterrato in ritardo, non manca di sottolineare il nostro. Poi parte la requisitoria in forma assai intelligente, perché entra nella dimensione dell’analisi pragmatica. Prima dimensione: rapporti fra politica e intelligence e fra questa e i gruppi terroristi. La seconda riguarda la religione e la sua capacità di costruire un’identità individuale e pubblica. Qua il messaggio è per le istituzioni politiche europee. La terza dimensione riguarda la ricerca di una sintesi per trovare soluzioni concrete. Punto su cui è difficile non essere d’accordo. Dove Ramadan tocca le corde emotive di molti e quando richiama i valori della democrazia. “La democrazia è anche una responsabilità, non è sempre un diritto”, gli applausi “scappano di mano”, come si dice. Peccato che tanto fervore democratico, e tanta sincera passione intellettuale – che va riconosciuta – sia messa al servizio di un messaggio che definire ambiguo è un eufemismo. È il duo Ahmed-Ramadan ha creare perplessità. I sensi di colpa scatenati dal primo servono all’introduzione del dubbio che la democrazia sia malata come meccanismo politico che viene inoculato dal secondo. Quando l’Occidente comincerà a capire che in ballo c’è la propria sopravvivenza?».
Il tema – eravamo alla Fiera del libro di Torino del maggio scorso - era legato ai confini, quindi i «pontieri» potevano essere protagonisti di quella kermesse culturale davvero interessante. Pierluigi Battista, sul Corriere di oggi, parla di «paradigma Gentile» ed espone ragioni condivisibili per essere prudenti nel dialogo con certi «pontieri». Invita a «stanare» l’elusivo e inafferrabile Ramadan. Il problema è che, sotto ogni punto di vista lo si voglia guardare, l’approccio di Ramadan al dialogo è monodirezionale: sono aperto al dialogo con un’Europa che, prima o poi, sarà dominata dalla cultura islamica. È vostro interesse mantenere i canali aperti, se non volete soccombere. Un modello assai simile a quello messo in atto dopo l’occupazione moresca dell’Andalusia. Il ponte c’è e anche il custode del ponte, pronto a dialogare con chi decide di attraversarlo. Solo che è a «senso unico», verso l’Islam. Sarebbe meglio parlare di strada, un sentiero verso l’annullamento dell’identità europea e occidentale. Il fiume non c’è, l’ostacolo è solo da una parte, la nostra.
venerdì 24 agosto 2007
Chinese connection
Non saranno i vecchi Tupolev 95 decollati il 17 agosto da sette basi russe a riattivare i meccanismi della guerra fredda. Neanche la capacità di trasportare 12 testate nucleari in quasi ogni angolo del globo potrà far dimenticare che i vetusti Bear o i Tu-160 Blackjack non fanno più paura. Incomincia a preoccupare, invece, la costante ripetizione di manovre congiunte del patto di Shangai (Shangai Cooperation Organization). Cina popolare, Russia, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan e Uzbekistan fanno parte di un’alleanza di mutuo soccorso che potrebbe creare qualche problema agli interessi occidentali in Asia centrale e, col tempo, nell’Oceano Pacifico, con riferimento ai due principali alleati. Che i rapporti fra il Cremino e l’Occidente non siano più quelli di una volta è noto. La genesi di questi problemi è raccontata con intelligenza in un capitolo del libro “La difesa dell’Occidente” (ed. Liberal, con prefazione di Renzo Foa) da Pierre Chiartano, analista, giornalista, esperto di questioni militari e culturali, che ha messo allo scoperto il problema Putin, ben prima che la stampa internazionale si accorgesse di quanto stesse accadendo in Russia. Paese che vai… democrazia che trovi, potrebbe essere la cifra per interpretare l’evoluzione russa e il suo sguardo sempre più rivolto ad Oriente che sembra snobbare Europa e Washington. «In questa situazione, la Russia dovrebbe sviluppare relazioni con le ex repubbliche sovietiche procedendo egoisticamente dai suoi interessi nazionali. La solidarietà non può permettere al dirigente del Turkmenistan d'infrangere i diritti dei Russi etnici, all'Ucraina di rubare il gas russo, e alla Bielorussia di perseguire giornalisti russi. E gli interessi geopolitici russi nel Caucaso settentrionale impongono la resa dei conti con la Georgia» è il pensiero di Sergei Markedonov, capo-dipartimento all'Istituto di Analisi Militare e Politica, che ha rilevato il fallimento completo della CSI nel tentativo di mantenere uniti i cocci dell'Unione Sovietica, forse dimenticando le libertà conculcate all’interno anche dei propri confini come le vicende Litvinenko e Politoskaya hanno dimostrato. La Russia oggi può solo pompare un po’ di “petro-rubli” in un vecchio apparato militare che fa acqua da tutte le parti. Uno spettacolino a favore del pubblico russo e degli ex membri dell’Urss che oggi guardano con interesse al nuovo zar. E’ l’intesa cinese che diventa pericolosa se osservata alla luce di quello che è il difficilissimo riequilibrio ancora in atto nel dopo guerra fredda. Pechino vuole diventare potenza marittima per proteggere i preziosi rifornimenti petroliferi, necessari per tenere in vita la sua incredibile crescita, fatta a spese di ambiente e libertà civili e sociali. Stesso il motivo che spinge ad una presenza militare cinese in Asia centrale, per garantirsi le vie di comunicazioni col meno prezioso petrolio russo (carico di zolfo e impurità) e col più utile gas di cui quelle regioni sono ricche. Un discorso che vale per il Medio Oriente e alcune aree dell’Africa come il Sudan e la Nigeria, oppure per l’oro nero del nuovo quadrilatero “chavista” in Sud America. Le mosse sono state evidenti già dalla fine degli anni Novanta e predispongono un futuro a tinte grigie, dove al vecchio confronto bipolare si sostituirà un meno definito confronto asimmetrico nei mezzi (proxy wars, guerre economiche, confronto sul soft power), ma preciso nei contorni strategici, per la conquista di un egemonia globale. Il cuore e l’anima del globo sul tavolo di un confronto giocato senza esclusione di colpi e di mezzi. Molto più pericoloso della guerra fredda, ingessata da una dinamica bipolare e dalla deterrenza nucleare. Quest’ultima, in particolare, è oggi priva delle condizioni ideali per funzionare come freno ai passi falsi, alle decisioni avventate. Oggi, purtroppo, ogni opzione è aperta, ogni pericolo è reale e possibile.
sabato 4 agosto 2007
"L'ultimo limes" - Recensione esclusiva per il Blog - di Massimo De Angelis
Il libro La Difesa dell’Occidente, di Pierre Chiartano, è stimolante sin dal titolo. Il sostantivo “difesa” rievoca subito l’11 settembre 2001, quando tutte le tv del mondo recarono la striscia “Usa under attack”. Chi può dimenticare?
Da allora gli Usa si sono sentiti chiamati alla difesa. Alla difesa dall’ attacco del terrorismo islamista di Al Quaeda. Una difesa interpretata dagli Usa come difesa di tutto l’Occidente e dei suoi valori. E qui il discorso si è complicato. Infatti, gran parte dei Paesi europei, dopo aver tributato attestati di solidarietà in settembre, coinciarono immediatamente dopo a prendere le distanze dalla linea difensiva degli Usa, da Enduring freedom. E qui veniamo al secondo sostantivo del titolo, Occidente: la sua univocità è in questione. Non è problema di metodi e di strategie diverse ma innanzitutto di identità. E qui si arriva alle guerre culturali, per usare un bel termine in voga negli Usa. Guerre culturali che spaccano l’Occidente e anche gli Usa. A partire dagli anni Settanta. Che cosa è accaduto? Teorie decostruzioniste e postmoderne hanno eroso il concetto di verità. Sul piano sociologico-storico si è proceduto a una rivalutazione delle culture “oppresse”. La miscela tra quelle teorie filosofiche e queste revisioni storiografiche hanno portato alla denuncia-condanna della cultura occidentale che non poteva accampare nessuna “superiorità” culturale e morale e che dunque vedeva considerati i suoi privilegi frutto di un sopruso. Questo ha portato al multiculturalismo negli Usa, che si è mescolato col terzomondismo marxista in Europa e da ultimo si è tradotto nel convenzionalismo e relativismo morale sia in Europa che negli Usa. Abbiamo allora detto: guerre terroristiche da un lato guerre culturali dall’altro. Sono due piani ben distinti ma anche interconnessi persino nelle biografie dei nemici dell’Occidente, a cominciare da Bin laden e dai kamikaze contro le Torri gemelle. Sono due piani, due livelli cui l’indagine di Chiartano non sfugge ma su cui fa anzi perno. In questo senso il suo libro è bidimensionale: non perde mai di vista gli spazi dello scacchiere strategico internazionale e dall’altro versante i fondali del conflitto culturale. Delinea scenari o talora anche solo fotogrammi dei conflitti economici, energetici, finanziari, militari, sulla scorta di studi di think tank mondiali e in primo luogo statunitensi; con squarci suggestivi ad esempio sulle connection tra Cina, Iran e il Venezuela di Chavez. Lumeggia i dilemmi culturali dell’Occidente, la sua drammatica erraticità, l’oblìo si sé. Innanzitutto dell’Europa. Il dissidio dell’Europa dagli Usa su Enduring freedom rischia di essere un nuovo tradimento dei chierici. Perché il conflitto non è sul modo. E’ sulla sostanza. L’Occidente ha prodotto e produce innovazione scientifica e tecnologica e quindi potenza economica, finanziaria, militare. A fondamento vi è la cultura, l’umanesimo occidentale, la libertà occidentale. Il grande problema del nostro tempo non è che la Cina e altre aree del terzo mondo acquisiscano capacità economiche e tecnologiche. Il problema è che fanno questo senza acquisire i valori etico- politici. Ma una cosa è che enormi potenziali finanziari e dunque anche militari siano in mano a poteri democratici altra cosa che siano a disposizione di dittature. Altra cosa è che strumenti biotecnologici delicati innanzitutto dal punto di vista etico siano diffusi tra persone responsabili e informati altra cosa e che siano utilizzati tra popolazioni inconsapevoli. Questo è il cuore della sfida culturale oggi. Ma l’Europa ne è poco o nulla consapevole. E questo perché, come si diceva prima a proposito delle guerre culturali, l’Europa innanzitutto ripudia i fondamenti morali e religiosi della sua stessa civiltà, come da tempo ha messo in luce la ricerca di Jurgen Habermas. E’ questo il frutto del secolarismo dell’Occidente come analizza Michael Novak in un recente studio appunto sul secolarismo e la sua crisi in Europa dopo l’11 settembre. Il paradosso è dunque il secolarismo. Occidentale e anche arabo. Esso non è in grado di rispondere, al Cairo come a Parigi, al risentimento fondamentalista. Non è in grado di rispondere sul piano dei valori perché non capisce la portata della sfida. E non è in grado di rispondere sul piano politico militare perché il secolarismo non è in grado di mobilitare sufficienti energie morali per affrontare i costi di una risposta dura al fondamentalismo islamico. La questione, all’ osso è questa. E’ vero che i problemi nascono dal fatto che viviamo in società complesse che non vogliono rinunciare ad essere tali. Ma tale osservazione si riduce a chiacchiera se non si vede che quella complessità è il prodotto di una cultura e si dica pure di una civiltà e di uno spirito e che se si abbandonano questi presupposti quella complessità rimane senza fondamento e in certa misura senza senso.
Pierre Chiartano , nel suo libro, illumina l’insieme di tali questioni, afferra il filo d’Arianna indispensabile a muoversi nel labirinto di questo nostro tempo: l’Occidente è, innanzitutto e fondamentalmente, libertà politica ed economica, ma questa si fonda sulla libertà di coscienza e di pensiero la quale,a sua volta, ha a fondamento la coscienza religiosa la quale ha origine nel monoteismo ebraico-cristiano. Si può articolare e scavare quanto si vuole ma o si ha chiaro questo o si brancola nel buio. E L’Occidente brancola nel buio. L’Europa soprattutto brancola nel buio perché non ha conosciuto la rinascita ideale e morale che in America è stata definita neoconservatrice. Quella svolta consente di capire. Noi europei invece, non essendo più memori delle origini della nostra civiltà, avendole oblìate non sappiamo più qual è la nostra identità. Non sappiamo neanche perché e da chi difenderci. Abbiamo paura delle bombe, certo. Ma non siamo in grado di resistere moralmente e politicamente al potere che decide di farle esplodere. Meglio rossi che morti diceva un triste slogan ai tempi della guerra fredda. E oggi quanti sarebbero pronti a dire: meglio taliban che morti? Rischiamo allora di essere sopraffatti. Ma in realtà rischiamo di peggio. Rischiamo di non essere all’altezza, noi europei delle responsabilità che abbiamo verso la storia e verso il mondo. Perché oggi è imperativo costruire un mondo di pace. L’Occidente ha le maggiori responsabilità in questo compito perché è la parte di umanità più evoluta e con maggiori mezzi. Ma se dimentica questa sua superiorità morale e spirituale, allora non è in grado di corrispondere a tali resposabilità. E allora, un giorno potrebbe rispondere alla sfida di civiltà sulla base non della sua cultura e dei suoi valori, ma della sola paura e del semplice istinto di sopravvivenza. A quel punto la risposta potrebbe essere croccante. A quel punto la guerra mondiale che dal ’45 si considera impossibile potrebbe tornare ad essere una ipotesi realistica e credo davvero sia questo il rischio maggiore nascosto dall’eclissi dell’Occidente e la nuova colpa che da tale eclissi può derivare.
Massimo De Angelis, giornalista, membro del comitato scientifico Fondazione Liberal
Da allora gli Usa si sono sentiti chiamati alla difesa. Alla difesa dall’ attacco del terrorismo islamista di Al Quaeda. Una difesa interpretata dagli Usa come difesa di tutto l’Occidente e dei suoi valori. E qui il discorso si è complicato. Infatti, gran parte dei Paesi europei, dopo aver tributato attestati di solidarietà in settembre, coinciarono immediatamente dopo a prendere le distanze dalla linea difensiva degli Usa, da Enduring freedom. E qui veniamo al secondo sostantivo del titolo, Occidente: la sua univocità è in questione. Non è problema di metodi e di strategie diverse ma innanzitutto di identità. E qui si arriva alle guerre culturali, per usare un bel termine in voga negli Usa. Guerre culturali che spaccano l’Occidente e anche gli Usa. A partire dagli anni Settanta. Che cosa è accaduto? Teorie decostruzioniste e postmoderne hanno eroso il concetto di verità. Sul piano sociologico-storico si è proceduto a una rivalutazione delle culture “oppresse”. La miscela tra quelle teorie filosofiche e queste revisioni storiografiche hanno portato alla denuncia-condanna della cultura occidentale che non poteva accampare nessuna “superiorità” culturale e morale e che dunque vedeva considerati i suoi privilegi frutto di un sopruso. Questo ha portato al multiculturalismo negli Usa, che si è mescolato col terzomondismo marxista in Europa e da ultimo si è tradotto nel convenzionalismo e relativismo morale sia in Europa che negli Usa. Abbiamo allora detto: guerre terroristiche da un lato guerre culturali dall’altro. Sono due piani ben distinti ma anche interconnessi persino nelle biografie dei nemici dell’Occidente, a cominciare da Bin laden e dai kamikaze contro le Torri gemelle. Sono due piani, due livelli cui l’indagine di Chiartano non sfugge ma su cui fa anzi perno. In questo senso il suo libro è bidimensionale: non perde mai di vista gli spazi dello scacchiere strategico internazionale e dall’altro versante i fondali del conflitto culturale. Delinea scenari o talora anche solo fotogrammi dei conflitti economici, energetici, finanziari, militari, sulla scorta di studi di think tank mondiali e in primo luogo statunitensi; con squarci suggestivi ad esempio sulle connection tra Cina, Iran e il Venezuela di Chavez. Lumeggia i dilemmi culturali dell’Occidente, la sua drammatica erraticità, l’oblìo si sé. Innanzitutto dell’Europa. Il dissidio dell’Europa dagli Usa su Enduring freedom rischia di essere un nuovo tradimento dei chierici. Perché il conflitto non è sul modo. E’ sulla sostanza. L’Occidente ha prodotto e produce innovazione scientifica e tecnologica e quindi potenza economica, finanziaria, militare. A fondamento vi è la cultura, l’umanesimo occidentale, la libertà occidentale. Il grande problema del nostro tempo non è che la Cina e altre aree del terzo mondo acquisiscano capacità economiche e tecnologiche. Il problema è che fanno questo senza acquisire i valori etico- politici. Ma una cosa è che enormi potenziali finanziari e dunque anche militari siano in mano a poteri democratici altra cosa che siano a disposizione di dittature. Altra cosa è che strumenti biotecnologici delicati innanzitutto dal punto di vista etico siano diffusi tra persone responsabili e informati altra cosa e che siano utilizzati tra popolazioni inconsapevoli. Questo è il cuore della sfida culturale oggi. Ma l’Europa ne è poco o nulla consapevole. E questo perché, come si diceva prima a proposito delle guerre culturali, l’Europa innanzitutto ripudia i fondamenti morali e religiosi della sua stessa civiltà, come da tempo ha messo in luce la ricerca di Jurgen Habermas. E’ questo il frutto del secolarismo dell’Occidente come analizza Michael Novak in un recente studio appunto sul secolarismo e la sua crisi in Europa dopo l’11 settembre. Il paradosso è dunque il secolarismo. Occidentale e anche arabo. Esso non è in grado di rispondere, al Cairo come a Parigi, al risentimento fondamentalista. Non è in grado di rispondere sul piano dei valori perché non capisce la portata della sfida. E non è in grado di rispondere sul piano politico militare perché il secolarismo non è in grado di mobilitare sufficienti energie morali per affrontare i costi di una risposta dura al fondamentalismo islamico. La questione, all’ osso è questa. E’ vero che i problemi nascono dal fatto che viviamo in società complesse che non vogliono rinunciare ad essere tali. Ma tale osservazione si riduce a chiacchiera se non si vede che quella complessità è il prodotto di una cultura e si dica pure di una civiltà e di uno spirito e che se si abbandonano questi presupposti quella complessità rimane senza fondamento e in certa misura senza senso.
Pierre Chiartano , nel suo libro, illumina l’insieme di tali questioni, afferra il filo d’Arianna indispensabile a muoversi nel labirinto di questo nostro tempo: l’Occidente è, innanzitutto e fondamentalmente, libertà politica ed economica, ma questa si fonda sulla libertà di coscienza e di pensiero la quale,a sua volta, ha a fondamento la coscienza religiosa la quale ha origine nel monoteismo ebraico-cristiano. Si può articolare e scavare quanto si vuole ma o si ha chiaro questo o si brancola nel buio. E L’Occidente brancola nel buio. L’Europa soprattutto brancola nel buio perché non ha conosciuto la rinascita ideale e morale che in America è stata definita neoconservatrice. Quella svolta consente di capire. Noi europei invece, non essendo più memori delle origini della nostra civiltà, avendole oblìate non sappiamo più qual è la nostra identità. Non sappiamo neanche perché e da chi difenderci. Abbiamo paura delle bombe, certo. Ma non siamo in grado di resistere moralmente e politicamente al potere che decide di farle esplodere. Meglio rossi che morti diceva un triste slogan ai tempi della guerra fredda. E oggi quanti sarebbero pronti a dire: meglio taliban che morti? Rischiamo allora di essere sopraffatti. Ma in realtà rischiamo di peggio. Rischiamo di non essere all’altezza, noi europei delle responsabilità che abbiamo verso la storia e verso il mondo. Perché oggi è imperativo costruire un mondo di pace. L’Occidente ha le maggiori responsabilità in questo compito perché è la parte di umanità più evoluta e con maggiori mezzi. Ma se dimentica questa sua superiorità morale e spirituale, allora non è in grado di corrispondere a tali resposabilità. E allora, un giorno potrebbe rispondere alla sfida di civiltà sulla base non della sua cultura e dei suoi valori, ma della sola paura e del semplice istinto di sopravvivenza. A quel punto la risposta potrebbe essere croccante. A quel punto la guerra mondiale che dal ’45 si considera impossibile potrebbe tornare ad essere una ipotesi realistica e credo davvero sia questo il rischio maggiore nascosto dall’eclissi dell’Occidente e la nuova colpa che da tale eclissi può derivare.
Massimo De Angelis, giornalista, membro del comitato scientifico Fondazione Liberal
venerdì 27 luglio 2007
Sergio Romano: Stato e globalizzazione
Pierre Chiartano intervista Sergio Romano: da Stiglitz a Fukuyama, il concetto di Stato e globalizzazione. Da questi temi è stato tratto un paragrafo del libro «La difesa dell'Occidente» (ed. Liberal) con prefazione di Renzo Foa
Abbiamo voluto chiedere un parere a Sergio Romano, uno dei più acuti analisti di politica internazionale dalla vasta esperienza diplomatica, professore, editorialista ed autore infaticabile di decine di pubblicazioni sulla storia del nostro Paese e del rapporto dell’Italia con il resto del mondo.
Ha ragione Fukuyama quando afferma che sia stato messo l’accento in modo acritico sull’abbandono del ruolo dello Stato come stava prendendo forma all’interno delle forti dinamiche della globalizzazione. Alla riduzione di ambiti andava affiancata una maggiore incisività del ruolo?
Ho l’impressione che vi sia stata, negli anni Novanta, una moda, una tendenza ideologica, un’ortodossia che proclamava il progressivo declino dello Stato a favore della spontaneità organizzativa della società, del mercato, dell’economia. Come tutte le tendenze, come tutte le mode possono anche dare risultati positivi, creano il clima adatto a certe riforme che sono necessarie e che vengono così meglio realizzate. Attenzione però, che quella tendenza ideologica non è stata mai pienamente realizzata. Non è vero che lo Stato abbia smesso di esercitare le sue funzioni semplicemente perchè un numero crescente di intellettuali e ideologi ne proclamava il declino. Lo Stato ha continuato ad esercitare le sue funzioni e mentre da un lato deregolamentava, così come ci avevano suggerito di fare la signora Thatcher e il presidente Reagan, dall’altro non passava giorno senza che introducesse nuovi regolamenti. Non dimentichiamo che il Mercato unico europeo, uno dei risultati più positivi di questa tendenza prevalente, è stato attuato a colpi di norme, di direttive, di leggi perchè altrimenti non sarebbe mai stato realizzato. Occorre quindi sempre fare una distinzione fra le idee prevalenti, in un certo periodo della storia, interessanti e che possono avere anche ricadute positive, e la realtà che è tutta un’altra cosa. È vero ciò che afferma Fukuyama, cioè che quella tendenza a considerare lo Stato come un carciofo a cui bisognava togliere una foglia alla volta, oggi sia meno proclamata e sentita come vera. Troviamo meno gente che affermi «meno Stato, più società», forse perchè il pendolo sta oscillando dall’altra parte. Rispetto a queste tendenze ideologiche occorre manifestare un certo distacco perchè tendenzialmente non sovvertono mai la situazione preesistente.
Anche la crisi e la stagnazione economica aumentano l’incertezza e la necessità di sentirsi tutelati
Certamente, perchè queste tendenze vengono influenzate dagli stati d’animo, dalle psicologie delle società in un determinato momento. Il fatto che per le economie occidentali le cose non siano andate molto bene negli ultimi anni, ha avuto l’effetto di rivalutare la funzione dello Stato.
Ma nella percezione dei cittadini con la scomparsa di un processo identificativo consolidato come quello di nazione, temperato dai valori della democrazia, è venuto a mancare qualcosa di immateriale o sono le necessità economiche a dominare?
Indubbiamente nel momento in cui la situazione economica non è positiva ed il mercato non produce automaticamente il benessere che invece si era pensato fosse capace di produrre i cittadini si ripiegano su se stessi sulle istituzioni con cui hanno maggiore dimestichezza e familiarità, pensando di avere qualche vantaggio.
È un’immagine riproducibile per tutti gli Stati europei?
I singoli Stati dell’Unione europea, anche quelli sono stati, in qualche modo, rivalutati nelle loro funzioni durante gli anni. Perché in una situazione economica non buona, in una fase in cui la modernizzazione minaccia i privilegi, le condizioni sociali di un certo numero di gruppi, ciascuno si ripiega su ciò che lo ha maggiormente garantito in passato. È ciò che è accaduto all’interno della Ue con la rinazionalizzazione, nei limiti del possibile, delle politiche economiche. Non credo però che sia una tendenza destinata a durare nel tempo, se guardo con distacco storico vedo che gli Stati europei, a parte queste oscillazioni del pendolo, continuano a perdere sovranità che rimane la grande tendenza di carattere storico. Il carattere nazionale dello stato è un processo che ha avuto il suo massimo fulgore fra il 1848 ed il 1918, non è iscritto nelle tavole della legge della storia universale.
Stiglitz nella sua analisi, in buona sostanza, afferma che i modelli economici dovrebbero essere flessibili rispetto al genius loci dei Paesi su cui vanno ad incidere. Meno grafici e parametri e maggiore mediazione culturale?
Stiglitz è una persona molto fine e intelligente. Credo che questa sia la constatazione di quanto certe ideologie del mercato come supremo regolatore delle fortune umane forse erano destinate a scontrarsi, nel tempo, con situazioni che non ne confermavano la validità. La mondializzazione, che è un fenomeno di lunga durata e che, di per sè, è un fenomeno positivo, ha messo in discussione la prosperità di alcuni gruppi sociali che, bene o male, all’interno dello Stato nazionale erano riusciti a vivere. In altre parole i tessili italiani soffrono e, naturalmente, chiedono allo Stato di essere aiutati perchè vedono la loro sorte messa a repentaglio. Questo porta a mettere in essere delle misure che ritardino questo declino di alcuni gruppi sociali. In tutte le società europee c’è una certa paura della modernizzazione e della mondializzazione, fa parte degli alti e bassi della vita di una nazione.
C’è chi ne approfitta e cavalca con coraggio la modernizzazione e c’è chi non lo fa. Alla fine chi deve scomparire, scompare.
Arriviamo al problema Cina, un gigante che qualcuno vede già come protagonista di una nuova competizione bipolare con l’Occidente a guida americana. Sviluppare una middle class per forzare la mano al partito comunista cinese, verso un percorso di riforme, non sembra dare i risultati sperati. Tenendo conto della complessità della situazione qual’è la chiave di lettura dell’Impero di Mezzo per i prossimi anni?
Il problema della Cina è che sta crescendo molto dinamicamente, in condizioni di sottosviluppo sociale, questo le permette di conquistare il mercato con prodotti in competizione con molte industrie europee. Benissimo, però contemporaneamente la Cina diventa, a sua volta, un mercato. Se lei è italiano e non può vendere aerei alla Cina, sentirà molto la crisi dei tessili, ma se lei è tedesco o francese e può vendere aerei a Pechino non sentirà questa crisi. È un problema nostro, non della Cina. Noi ci siamo in qualche modo impigriti negli ultimi vent’anni, abbandonando le industrie che ci avrebbero aiutato a cogliere le occasione che il mercato cinese ci offre. Siamo sul versante dei perdenti. Altri Paesi sono contemporaneamente perdenti per certi settori e vincenti per altri.Sul problema dello sviluppo della democrazia il Paese rappresenta un modello del tutto inedito. Non era mai accaduto nel mondo che un sistema autoritario, totalitario almeno nominalmente, con un partito unico ed un forte controllo sulla società sul piano ideologico, fosse stato capace di liberare le grandi energie economiche del Paese con tassi di sviluppo che tutti conosciamo. In generale eravamo stati educati a pensare che, nel momento in cui si formano dei ceti economici dinamici che si rafforzano e si sviluppano, si creano le condizioni per la democrazia. Perché ad un certo punto, questi ceti vorranno influire sul quadro legislativo, chiederanno garanzie e maggiore autorità. Abbiamo sempre pensato che questo sistema cinese non fosse destinato a durare indefinitamente, perchè contiene al suo interno una incompatibilità fra l’autorità e la rigidità del sistema politico e la straordinaria flessibilità del sistema economico. Io continuo a pensare che sia così, che non possa durare all’infinito. Però quello che conta in politica è la previsione, potrei avere anche ragione ma se l’avessi fra cinquant’anni che senso avrebbe?
Pessimista?
Non sono né pessimista né ottimista. Se chi sta facendo affari con la Cina dovesse dar retta a coloro che fanno queste considerazioni, commetterebbe un errore, perchè intanto potrebbe sviluppare ottimi affari, e se il sistema reggesse per altri dieci anni avrebbe anche ammortizzato l’investimento. Il sistema non dovrebbe essere destinato a durare perchè ha una contraddizione, ma questo lo diciamo noi soltanto perchè non abbiamo assistito a nulla di simile nella storia. E se questa fosse la prima volta?
mercoledì 25 luglio 2007
«La difesa dell'Occidente» è stato segnalato su «Pianeta Libro» del Ministero BB e AA Culturali
«Pianeta Libro» è un'attività del Ministero dei Beni e delle Attività culturali che vuole promuovere l'attività dell'Istituto per il Libro. «La difesa dell'Occidente» è stato segnalato fra le novità di giugno 2007
L’Istituto per il Libro (IPL) è stato creato alla fine del 2005 nell’ambito della Direzione generale per i Beni librari e gli Istituti culturali per dare maggiore rilievo al libro e alla lettura nelle politiche dell’Amministrazione pubblica. L’Italia è un Paese in cui si legge poco e tende ad aumentare la forbice tra non lettori e lettori occasionali (la gran maggioranza) e i cosiddetti “lettori” forti (una minoranza, seppur agguerrita). Per questo motivo la nascita dell’IPL è un primo passo importante, fatto pensando a una sistemazione organica del settore, su un modello europeo.L’Istituto ha ben presente che l’obiettivo finale è il lettore, reale o potenziale. E che l’”obiettivo” deve diventare, da subito, un soggetto da coinvolgere, un attore partecipe. L’IPL si propone di raccogliere, coordinare e rilanciare i progetti che rispecchiano e veicolano un’idea del libro come elemento vitale e “amichevole” inserito nell’esistenza quotidiana, agendo perché prevalga una diversa qualità della proposta culturale in questo campo. Pertanto l’IPL, intende fondare i suoi programmi sul coordinamento delle energie e delle iniziative espresse sia dalle realtà culturali e dalle istituzioni locali (Regioni, Province, Comuni), sia da tutti i soggetti che compongono la filiera del libro. Questa azione, sostenuta da un programma di comunicazione a lungo termine, attraverso il coinvolgimento delle istituzioni e dei media, si incentrerà con le attività istituzionali a sostegno della diffusione del libro e della lettura in Italia e all’estero (partecipazione a Fiere, incentivi alle traduzioni, iniziative nelle scuole e nelle biblioteche) e si dispiegherà in una serie di eventi organizzati dall’Istituto per il Libro, che interesseranno numerose realtà italiane (soprattutto del Centro e del Sud) a partire dal mese di ottobre 2006.
venerdì 20 luglio 2007
Licenza d'uccidere
Vladimir Putin definisce «mini-crisi» la lotta fra spioni scatenata con Londra. Abbassa i toni, forse pagando pegno ai buoni rapporti con Bush. Nell’amministrazione americana c’è chi sconti non ne fa al nuovo zar del Cremlino e non è mai andata tanto per il sottile durante i viaggi in Russia. La regola della legge che va rispettata ovunque anche nella sconfinata Russia dispersa fra Occidente ed Oriente, dove la gente ama Putin ed il suo modo spregiudicato di fare politica. La crisi nasce dall’affaire Litvinenko, un’intera sezione dell’Fsb incaricata per la sicurezza interna, che si ribella ad ordini che considera «infami». Esecuzioni politiche ed implicazioni negli attentati «ceceni» a Mosca, più qualche altra cosuccia che riguarda zar Vladimir. Molto interessante a questo proposito il documentario di Nekrasov con lunghe interviste a Litvinenko e video confessioni di agenti dell’Fsb. Nel libro «La difesa dell’Occidente» (Edizioni Liberal) di Pierre Chiartano con prefazione di Renzo Foa, si possono leggere diversi paragrafi dedicati alla politica del segretario di Stato Rice in Russia. Ne esce uno spaccato dei rapporti fra Occidente e Mosca che già faceva presagire la crisi che stiamo vivendo in queste settimane: «La guerra agli oligarchi che qualcuno chiama “decolonizzazione” è assomigliata più ad una pulizia interna degli amici degli americani, che avrebbero voluto introdurre concorrenza e meritocrazia piuttosto che un’operazione di trasparenza di potere. I cosiddetti oligarchi sarebbero stati un contropotere che avrebbe fatto da sponda interna a quella “spocchiosa” della Rice, che pretendeva di dettare le regole della democrazia. A Putin, che ben incarna la trinità imperatore-stato-popolo, è sembrato uno scenario da cancellare. Insomma l’ex uomo del Kgb ha voluto togliersi dai piedi chiunque potesse ostacolarlo nel suo progetto per una nuova Russia, da realizzare con i metodi zaristi, naturalmente. Boris Berezosvkij esiliato a Londra si lecca le ferite e piange i suoi morti, così come Vladimir Gusinskij, entrambi fortunatissimi rispetto a Mikhail Khodorkoskij, internato in Siberia. Per gli altri la vendetta è stata servita con una mano tesa, che quasi nessuno a rifiutato. Oggi le vicende Politoskaja e Litvynenko riaccendono l’interesse dell’Europa verso un vicino che da derelitto del dopo muro, grazie all’oro nero e al gas, sta vivendo un‘età dell’oro, che ne ha riacceso progetti e mire. Cecenia, Georgia e Ucraina sono nella lista nera dell’agenda Putin, con un’Europa tiepida ad interferire, per paura che la bolletta del gas russo possa levitare o i rubinetti chiudersi. Putin vede la Nato come «l’America vestita d’Occidente», e si destreggia con Pechino aiutando la Cina a fare da argine al potere americano in Asia centrale. Vuole però evitare di fare il vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro Usa e Cina. Un gioco complesso di partnership economica e conflitto geopolitico, quello fra Washington e Pechino, che il «mandarino» di San Pietroburgo cercherà di sfruttare fino all’ultimo a suo favore. L’antico pendolo fra democrazia d’Atene e satrapie orientali si ripropone in salsa russa. Dove al modello di aperture di mercato del Partito comunista cinese diventato imprenditore-padrone, si contrappone la democrazia di quei rompiscatole d’oltre Atlantico, che non sanno di cose orientali, di quanto la gente sia abituata a piegare la testa - rimpiangono Stalin e Breznev, stando a recenti sondaggi - a guardare cinicamente al proprio interesse, e abbia bisogno di essere governata con polso fermo. Le circa 18mila testate atomiche stoccate chissà in quale maniera, sembrano essere diventate più un problema che l’arma residua del potere che fu, rispetto alle materie prime di cui la Russia è ricchissima, armi politiche ben più moderne ed affilate. La Germania di Schroeder guardava a Mosca per salpare con l’Europa verso Est, la Merkel è più saldamente ancorata al Nord Atlantico, ma fa quello che può, vincolata dalla politica del day by day che ha fame di soldi, energia e consenso per tenere in piedi una Grosse Koalition un po’ traballante. Così la Russia torna ad essere una issue al dipartimento di Stato e le proxy war del Medio Oriente, e non solo, acquistano una valenza da scontro globale per l’assestamento di un nuovo balance of power». (il libro o puoi acquistare on-line su Internet Book Shop, oppure consultare l’elenco delle librerie su http://difesadelloccidente.blogspot.com).
Condoleezza Rice, ieri, da Lisbona, è tornata all’attacco con un affondo a Putin riguardo al caso Litvinenko: «La Russia deve onorare la domanda d’estradizione e dovrebbe cooperare in pieno con le autorità britanniche». Il riferimento all’estradizione riguarda uno dei principali sospettati dell’omicidio Litvinenko cioè l’ex agente Andrei Luguvoi che in realtà, secondo indiscrezioni, sarebbe stato il sicario di scorta al bar del Millennium, in caso il primo tentativo d’avvelenamento fosse fallito. Litvinenko quando arrivò a quel incontro nel centro della city sarebbe già stato avvelenato dal polonio. Sullo sfondo c’è la politica, con l’allontanamento di Putin dall’Occidente, l’abbandono dei trattati Cfe e l’ostracismo contro lo scudo anti-missile, unica difesa dell’Europa contro un’eventuale minaccia Iraniana. Ora il giovane capo del Foreign Office, David Milliband, incassa l’appoggio di Washington e le critiche Di Vladimir Cizhov rappresentante russo in seno alla Ue. Putin minimizza e forse ha ragione, ben sapendo che le vere preoccupazioni di Washington sono molto più a Oriente.
martedì 17 luglio 2007
Lo strano Occidente di alcuni europei
Il ministro degli Esteri italiano critica l’Occidente che non vuole trattare con Hamas. «È una forza popolare che ha vinto elezioni democratiche, con questo atteggiamento si fa un regalo ad Al Qaeda», sentenzia oggi dalle colonne del Corrierone. E aggiunge che «con il boicottaggio l’Occidente non dà una straordinaria prova di democrazia». Bene. Cominciamo dall’inizio con una precisazione: anche il nazismo raggiunse il potere tramite elezioni democratiche. Lo sappiamo bene che non bastano le procedure democratiche per creare istituzioni democreatiche. Però vogliamo raccogliere la provocazione di D’Alema e chiedergli a che Occidente (o accidente) si riferisce. Perché in quella polveriera non è con la concertazione che si può risolvere nulla. Fassino e D’Alema affermano che sedersi ad un tavolo è già un riconoscimento fra le parti. Usano un linguaggio utile per le contrattazioni sindacali o per il levantinismo dei palazzi romani che è poco imparentato con la realtà. Hamas può anche sedersi al tavolo ma il suo obiettivo dichiarato è cancellare Israele. Oggi è un obiettivo meno presuntuoso di un tempo visto che la pax americana in Medio Oriente è traballante e l’alternativa asiatica è dietro l’angolo. Basta saper aspettare. Se questa fosse la prospettiva allora D’Alema avrebbe cento, mille ragioni per impantanare il dialogo su tavoli inutili quanto pericolosi. Perché pericolosi? Perché quando tratti e un contraente bara – riprende l’azione violenta, ad esempio – tu paghi un prezzo in credibilità rispetto al tuo Paese e indebolisci la causa «moderata». Ogni apertura europea, anche formale, anche semplicemente sotto le spoglie di comprensione politica, rischia di alimentare la convinzione che ci siano alleati lungo la strada della violenza. Indipendentemente dai comportamenti corretti o sleali. Massimo D’Alema è figlio di una tradizione culturale che fa della «ragion di Stato» la quintessenza della politica, anche negli affari esteri. Slega l’etica delle persone da quella degli Stati e non giudica i comportamenti per come banalmente si presentano. Gli Usa da Jefferson fino a Wilson – con l’unica eccezione di Theodore Roosvelt – a Clinton e Bush Jr non distinguono la morale dei singoli individui da quella degli Stati, entrambi devono essere giudicati da una prospettiva unica. Dimostrano così d’essere figli di una cultura democratica più matura, meno oligarchica e meno polverosa di quella che contraddistingue molte cancellerie europee e la Farnesina. Il modello angloamericano di diplomazia caratterizza in parte anche Israele perchè condivide un’importante matrice etica di origine culturale (molti di questi temi sono trattati nel libro «La difesa dell’Occidente» Edizioni Liberal di Pierre Chiartano con prefazione di Renzo Foa). Questa doppia misura, da cui deriva un doppio linguaggio, provoca danni enormi e incomprensioni straordinarie. Se caliamo questa realtà nella già complicatissima situazione mediorientale il disastro è servito. Non mettiamo in dubbio la «serietà» di Hamas, ma aggiungiamo che anche i nazisti delle SS erano gente «seria e onesta» con buona pace delle bizzarrie che D’Alema legge nel «suo» Occidente.
lunedì 16 luglio 2007
Pechino e il signor Kennan
«In un rapporto riservato, il Pentagono ha di recente ribadito che l’America dovrà contenere la Cina come contenne l’Urss, più che la Russia», la nota in una corrispondenza di Enni Caretto da Washington che conferma le tesi del libro «La difesa dell’Occidente» (Edizioni Liberal) di Pierre Chiartano con prefazione di Renzo Foa. L’autore ha più volte scritto che la politica americana nei confronti di Pechino sarebbe giunta ad elaborare una nuova dottrina Kennan, una politica di contenimento che fosse modulare alle aperture – o chiusure – di quel Paese, alle riforme democratiche oppure ad una nuova politica di potenza che potesse sfidare l’Occidente. Una politica necessariamente progressiva, vista l’attuale impossibilità da parte cinese di un confronto militare con Washington. In questo contesto prenderebbero forma numerosi modelli di conflitti atipici, non palesi, dal commercio alla diplomazia economica, dal soft power declinato in varia maniera agli scandali finanziari. «È il potenziale rapporto sino-islamico, che sta minando la vecchia geopolitica mediorientale con prospettive strategiche», si legge nell’introduzione al libro. Quindi il confronto tra Occidente ed Islam sarebbe solo il primo gradino di quello ben più impegnativo col dragone cinese. «Il monito non può essere ignorato neanche dall’Europa» continua Caretto, citando il documento riservato del Pentagono «ma per qualche tempo il pericolo sarà in gran parte commerciale», continua l’intervento sul Corriere del 15 luglio 2007. «La grande fame di petrolio per alimentare la forte crescita del gigante asiatico portava, già a metà degli anni Novanta, a produrre una geopolitica energetica aggressiva che minava, consapevolmente o meno, la leadership occidentale, stabilendo le basi per un diverso balance of power mediorientale e rendendo meno attraente e funzionale il modello di pax americana (...) È fuori di ogni dubbio che l’obiettivo principale di questa nuova alleanza sia minare lo Stato d’Israele, come tessera di un domino che provocherebbe il collasso quasi immediato dell’Europa» è la conferma di queste tesi largamente anticipate nell’introduzione del libro e poi nei contenuti dei quattro capitoli che costituiscono l’ossatura dell’analisi. Il comportamento attuale di Putin sarebbe solo uno specchietto delle allodole per Washington e Bruxelles. Mosca sapendo di poter diventare un ago della bilancia cerca di non diventare il vaso ci coccio in mezzo a quelli di ferro americano e cinese, cercando di trarre il maggior profitto possibile dalla situazione. Primo ritagliandosi una certa indipendenza politica. Secondo, vendendo al pubblico russo l’apparenza di un nuovo protagonismo internazionale del Cremlino, puntellando il già consolidato potere di «zar Putin». In questo gioco che sarà sicuramente «senza quartiere» l’Europa rischia di soccombere già sul medio periodo se non dovesse decidere per una scelta di campo decisamente filoatlantica. L’affare Litvinenko e la stance cinese in politica estera sono chiari messaggi sullo stile «disinvolto» e a tratti criminale con cui le nostre elite politiche dovranno confrontarsi. L’Europa in breve sarebbe dominata dalle mafie russe e cinesi e la democrazia e le libertà solo un ricordo.
mercoledì 4 luglio 2007
Shoesless George Bush
by Daniel Pipes
New York Sun
July 3, 2007
When Dwight D. Eisenhower dedicated the Islamic Center in Washington, D.C., in June 1957, his 500-word talk effused good will ("Civilization owes to the Islamic world some of its most important tools and achievements") even as the American president embarrassingly bumbled (Muslims in the United States, he declared, have the right to their "own church"). Conspicuously, he included nary a word about policy. Exactly fifty years later, standing shoeless, George W. Bush rededicated the center last week. His 1,600-word speech also praised medieval Islamic culture ("We come to express our appreciation for a faith that has enriched civilization for centuries"), but he knew a mosque from a church – and he had more on the agenda than flattery. Most arresting, surely, was his statement that "I have invested the heart of my presidency in helping Muslims fight terrorism, and claim their liberty, and find their own unique paths to prosperity and peace." This cri du coeur signaled how Mr. Bush understands to what extent actions by Muslims will define his legacy. Should they heed his dream "and find their own unique paths to prosperity and peace," then his presidency, however ravaged it may look at the moment, will be vindicated. As with Harry S Truman, historians will acknowledge that he saw further than his contemporaries. Should Muslims, however, be "left behind in the global movement toward prosperity and freedom," historians will likely judge his two terms as harshly as his fellow Americans do today. Of course, how Muslims fare depends in large part on the future course of radical Islam, which in turn depends in some part on its understanding by the American president. Over the years, Mr. Bush has generally shown an increased understanding of this topic. He started with platitudinous, apologetic references to Islam as the "religion of peace," using this phrase as late as 2006. He early on even lectured Muslims on the true nature of their religion, a presumptuous ambition that prompted me in 2001 to dub him "Imam Bush." As his understanding grew, Mr. Bush spoke of the caliphate, "Islamic extremism" and "Islamofacism." What euphemistically he called the "war on terror" in 2001, by 2006 he referred to with the hard-hitting "war with Islamic fascists." Things were looking up. Perhaps official Washington did understand the threat, after all. But such analyses roused Muslim opposition and, as he approaches his political twilight, Mr. Bush has retreated to safer ground, reverting last week to decayed tropes that tiptoe around any mention of Islam. Instead, he spoke inelegantly of "the great struggle against extremism that is now playing out across the broader Middle East" and vaguely of "a group of extremists who seek to use religion as a path to power and a means of domination." Worse, the speech drum-rolled the appointment of a U.S. special envoy to the Organization of the Islamic Conference, directing this envoy to "listen to and learn from" his Muslim counterparts. But the OIC is a Saudi-sponsored organization promoting the Wahhabi agenda under the trappings of a Muslim-only United Nations. As counterterrorism specialist Steven Emerson has noted, Bush's dismal initiative stands in "complete ignorance of the rampant radicalism, pro-terrorist, and anti-American sentiments routinely found in statements by the OIC and its leaders." Sitting in the audience at the Islamic Center on June 27, 2007, three senior Bush administration staffers wore makeshift hijabs: Fran Townsend (far left), Assistant to the President for Homeland Security and Counterterrorism, NSC Senior Director for European Affairs Judy Ansley (left), and Under Secretary of State for Public Diplomacy and Public Affairs Karen Hughes (right). Adding to the event's accommodationist tone, some of the president's top female aides, including Frances Townsend and Karen Hughes, wore makeshift hijabs as they listened to him in the audience. In brief, it feels like "déjà vu all over again." As columnist Diana West puts it, "Nearly six years after September 11 — nearly six years after first visiting the Islamic Center and proclaiming ‘Islam is peace' — Mr. Bush has learned nothing." But we now harbor fewer hopes than in 2001 that he still can learn, absorb, and reflect an understanding of the enemy's Islamist nature. Concluding that he basically has failed to engage this central issue, we instead must look to Mr. Bush's potential successors and look for them to return to his occasional robustness, again taking up those difficult concepts of Islamic extremism, Shariah, and the caliphate. Several Republicans – Rudy Giuliani, Mitt Romney, and (above all) Fred Thompson – are doing just that. Democratic candidates, unfortunately, prefer to remain almost completely silent on this topic. Almost thirty years after Islamists first attacked Americans, and on the eve of three major attempted terrorist attacks in Great Britain, the president's speech reveals how confused Washington remains.
From www.danielpipes.org | Original article available at: www.danielpipes.org/article/4739
New York Sun
July 3, 2007
When Dwight D. Eisenhower dedicated the Islamic Center in Washington, D.C., in June 1957, his 500-word talk effused good will ("Civilization owes to the Islamic world some of its most important tools and achievements") even as the American president embarrassingly bumbled (Muslims in the United States, he declared, have the right to their "own church"). Conspicuously, he included nary a word about policy. Exactly fifty years later, standing shoeless, George W. Bush rededicated the center last week. His 1,600-word speech also praised medieval Islamic culture ("We come to express our appreciation for a faith that has enriched civilization for centuries"), but he knew a mosque from a church – and he had more on the agenda than flattery. Most arresting, surely, was his statement that "I have invested the heart of my presidency in helping Muslims fight terrorism, and claim their liberty, and find their own unique paths to prosperity and peace." This cri du coeur signaled how Mr. Bush understands to what extent actions by Muslims will define his legacy. Should they heed his dream "and find their own unique paths to prosperity and peace," then his presidency, however ravaged it may look at the moment, will be vindicated. As with Harry S Truman, historians will acknowledge that he saw further than his contemporaries. Should Muslims, however, be "left behind in the global movement toward prosperity and freedom," historians will likely judge his two terms as harshly as his fellow Americans do today. Of course, how Muslims fare depends in large part on the future course of radical Islam, which in turn depends in some part on its understanding by the American president. Over the years, Mr. Bush has generally shown an increased understanding of this topic. He started with platitudinous, apologetic references to Islam as the "religion of peace," using this phrase as late as 2006. He early on even lectured Muslims on the true nature of their religion, a presumptuous ambition that prompted me in 2001 to dub him "Imam Bush." As his understanding grew, Mr. Bush spoke of the caliphate, "Islamic extremism" and "Islamofacism." What euphemistically he called the "war on terror" in 2001, by 2006 he referred to with the hard-hitting "war with Islamic fascists." Things were looking up. Perhaps official Washington did understand the threat, after all. But such analyses roused Muslim opposition and, as he approaches his political twilight, Mr. Bush has retreated to safer ground, reverting last week to decayed tropes that tiptoe around any mention of Islam. Instead, he spoke inelegantly of "the great struggle against extremism that is now playing out across the broader Middle East" and vaguely of "a group of extremists who seek to use religion as a path to power and a means of domination." Worse, the speech drum-rolled the appointment of a U.S. special envoy to the Organization of the Islamic Conference, directing this envoy to "listen to and learn from" his Muslim counterparts. But the OIC is a Saudi-sponsored organization promoting the Wahhabi agenda under the trappings of a Muslim-only United Nations. As counterterrorism specialist Steven Emerson has noted, Bush's dismal initiative stands in "complete ignorance of the rampant radicalism, pro-terrorist, and anti-American sentiments routinely found in statements by the OIC and its leaders." Sitting in the audience at the Islamic Center on June 27, 2007, three senior Bush administration staffers wore makeshift hijabs: Fran Townsend (far left), Assistant to the President for Homeland Security and Counterterrorism, NSC Senior Director for European Affairs Judy Ansley (left), and Under Secretary of State for Public Diplomacy and Public Affairs Karen Hughes (right). Adding to the event's accommodationist tone, some of the president's top female aides, including Frances Townsend and Karen Hughes, wore makeshift hijabs as they listened to him in the audience. In brief, it feels like "déjà vu all over again." As columnist Diana West puts it, "Nearly six years after September 11 — nearly six years after first visiting the Islamic Center and proclaiming ‘Islam is peace' — Mr. Bush has learned nothing." But we now harbor fewer hopes than in 2001 that he still can learn, absorb, and reflect an understanding of the enemy's Islamist nature. Concluding that he basically has failed to engage this central issue, we instead must look to Mr. Bush's potential successors and look for them to return to his occasional robustness, again taking up those difficult concepts of Islamic extremism, Shariah, and the caliphate. Several Republicans – Rudy Giuliani, Mitt Romney, and (above all) Fred Thompson – are doing just that. Democratic candidates, unfortunately, prefer to remain almost completely silent on this topic. Almost thirty years after Islamists first attacked Americans, and on the eve of three major attempted terrorist attacks in Great Britain, the president's speech reveals how confused Washington remains.
From www.danielpipes.org | Original article available at: www.danielpipes.org/article/4739
lunedì 2 luglio 2007
Le «armi» contro il terrorismo
Tra gli arrestati una donna e due medici. Sono loro a concretizzare l’immagine dei terroristi che hanno tentato di gettare nell’incubo delle auto-bomba di marca iraquena i cittadini di Sua Maestà. Professionisti addestrati a salvare vite che avrebbero organizzato il peggiore degli attentati. Un’esplosione nell’ospedale dove sarebbero confluiti i soccorsi con i feriti di Piccadilly. La scena raccapricciante dello scalo aereo di Glasgow «gli si staccava la pelle carbonizzata dal viso e dalle braccia e lui tirava pugni», con la descrizione del kamikaze che ha lanciato la jeep contro l’atrio partenze dell’aeroporto gallese, raccontano qualcosa che dovremmo avere il coraggio di analizzare senza paura. «Nelle indicazioni sull’arruolamento di combattenti del jihad occidentali la raccomandazione è quella di reclutarli con un livello di cultura alto. I ragazzi dell’ammiraglio Onishi Takijiro, padre della tattica kamikaze, appartenevano alle migliori università umanistiche giapponesi e pensavano di opporsi a quello che consideravano il molle Konfortismus (sinonimo di felicità) del liberalismo borghese. “Anche se saremo sconfitti, la nobiltà di spirito del corpo d’attacco kamikaze salverà la nostra Patria dallo sfacelo”, era la radice di quel pensiero che aveva animato giovanissimi rappresentanti della futura classe dirigente del Sol Levante. “Troppo intelligenti per credere alla retorica guerriera”, afferma Ian Buruma nel suo libro “Occidentalismo”, erano lontani dal vulnus militarista e si cibavano di letture legate alla tradizione europea razionalista, come Hegel, Nietzsche, Fitche e Marx. Più vicini “ai guardiani della frontiera occidentale del VIII secolo”, che allo spirito samurai, che pur giocava un ruolo sul piano simbolico. Quindi più debitori del germanico Volk di patrioti eroici, che al “vento divino” creato dalla dinastia Meji per trapiantare il culto dell’imperatore, su base shintoista, nella società giapponese in piena rivoluzione industriale e contrastare, sul piano culturale, un Europa che loro consideravano forte, grazie al ruolo unificante del cristianesimo» (tratto dall’introduzione al libro di «La difesa dell’Occidente» Edizioni Liberal). Ciò significa che il confronto, lo scontro è e sarà duro, ma soprattutto è e sarà culturale. Un campo dove l’Occidente può schierare truppe più addestrate e agguerrite di quelle schierate in Iraq. Vuol dire che il confronto culturale deve subire uno scatto qualitativo notevole, che l’Occidente deve tirare fuori i gioielli di famiglia, quelli che Ayaan Hirsi Ali – il politico olandese, di origine somala, che ha dovuto riparare negli Usa - ci accusa di non saper più difendere. L’uomo come fine e non come mezzo da cui nascono le tradizioni che hanno dato vita ai concetti di libertà, di habeas corpus, di equilibrio fra i poteri che oggi noi occidentali sembriamo non essere più in grado di difendere. È la nostra identità in via di dissoluzione ad essere il nostro peggior nemico. Il terrorismo islamico lo sa e continuerà a colpire finché non sapremo dimostrare che la battaglia del terrore nichilista non riesce a vincere. Gli inglesi ci hanno dato un’ulteriore dimostrazione di non farsi piegare dai meccanismi della violenza cieca. A Wembley in settantamila hanno risposto che la paura non vince, che il terrore non paga, che l’Occidente cosciente della propria forza culturale, delle tradizioni e dell’umile consapevolezza dei limiti può essere difeso.
mercoledì 27 giugno 2007
Who cares Middle East?
«Sconfiggere gli arabi non è difficile, è praticamente inutile», queste semplici parole – che al pubblico italiano potrebbero risvegliare antichi ricordi - scandite nell’articolo di Edward Luttwak, che sta per uscire su Aspenia, sono la cifra del nuovo vento atlantico che spira già da tempo. Sulle pagine di «The American Interest», la nuova iniziativa di Fukuyama &Co, nel numero di maggio/giugno, si possono leggere analisi interessanti sull’irrilevanza del Medio Oriente (l’articolo è recensito sulla «Rivista delle riviste» - rubrica curata dall’autore di CL - su Risk 12, in edicola con l’ultimo numero di «Liberal» bimestrale). «Con l’entrata nel XXI secolo il Medio Oriente sarà sempre meno rilevante per Washington», sentenzia Philip E. Auserwald, professore di Harvard, che smonta, pezzo dopo pezzo, tutti i luoghi comuni sulla sicurezza energetica e strategica che farebbero del Medio Oriente la «fortezza Bastiani» di un Occidente in difesa di se stesso. La tesi di fondo è quella che il prezzo del petrolio e le riforme democratiche viaggino in direzioni opposte, in alcuni paesi. Un’atmosfera di fastidio che potrebbe essere una sorta di disprezzo verso ciò che non si può ottenere? Vista la mala parata, e le critiche di molti sinceri alleati di Washington, gli americani avrebbero deciso di derubricare il MO dall’agenda del Dos? Non sembrerebbe, viste le argomentazioni di Luttwak. In pratica, sia i falchi che le colombe sbaglierebbero sull’approccio alle politiche mediorientali. Le maniere dure aumentano l’ostilità, quelle morbide non raggiungo alcun obiettivo. «L’Islam, come ogni altra civiltà, ambisce a dirigere ogni dimensione della vita e in più, a differenza di altre civiltà, promette ai suoi fedeli la superiorità in ogni sfera; quindi l’arretratezza scientifica, tecnologica e culturale genera un senso d’umiliazione», afferma Luttwak confermando la tesi del povero Samir Kassir – sfortunato padre della primavera libanese, morto assassinato – sugli «infelici della storia». L’invito di Luttwak è quello di occuparsi meno del Medio e più dell’Estremo Oriente, dove si giocano gli equilibri del futuro. Una tesi che, nel libro «La difesa dell’Occidente» (ed. Liberal) di Pierre Chiartano, è posta alla base di ogni valutazione per comprendere le nuove architetture mondiali. Il libro infatti legge il conflitto con l’Islam solo come un tassello del più importante confronto asiatico col dragone cinese. La novità è che Luttwak inserisce l’Europa fra i luoghi degni di maggiore attenzione per una rinascita dell’Occidente. Forse dobbiamo aspettarci, anche noi europei, di non essere più considerati i «poor devils» di Foggy Bottom. Nell’attesa del nuovo inquilino della Casa Bianca, sembra che Washington stia allineando le priorità. Ma è sempre più netta la sensazione che il terreno che stanno preparando sia il campo di gioco preferito da Mrs. Hillary. Questo farebbe dell’Europa di un’eventuale presidenza Rhodam-Clinton un campo per un nuovo Grande Gioco atlantico. Saremo noi, cinici e disincantati europei, all’altezza della sfida?
martedì 26 giugno 2007
La verità in Medio Oriente
Al Qaeda offre un patto ad Hamas, forse questo è un primo segnale che gli accordi di Sharm stanno producendo qualcosa, perchè costringono i terrorismo a rilanciare. «Ex malo bonum» direbbe sant’Agostino per descrivere il raggio di luce che s’intravede nelle tenebre del martoriato Medio Oriente e la politica europea dovrebbe svegliarsi dall’overdose razionalista e raccogliere un testimone che gli Usa da tempo gli porgono. Qualche segnale anche nella sinistra italiana – escludendo Massimo D’Alema – sembra muoversi, tanto che Piero Fassino dichiarava – ieri sera ad un incontro organizzato dal Keren Kayemet Le Israel - che «finché l’Europa applicherà le categorie della razionalità astratta (sulle vicende mediorientali) non capirà Israele e la sua diffidenza verso i governi europei». Insomma il governo di Gerusalemme, come il popolo israeliano, temono di essere lasciati soli dall’Europa, come è già successo 60 anni fa. «Dobbiamo aiutare i mujaheddin palestinesi, che sono quelli di Hamas», dichiara Al Zawahiri che punta ad una nuova stagione di violenza. Ma anche nel mondo dei media arabi qualcosa sta cambiando se - come CL ha già scritto nel post de 16/06 «Chi ama i palestinesi?» - il direttore di Al Arabya dichiarava: «la nostra pervicacia nel tenere confinati i palestinesi nei campi come degli animali, per poter mantenere vivo il problema è forse un crimine peggiore di quello compiuto da Israele (…) che può permettersi di affermare di trattarli meglio dei loro fratelli arabi». Che la questione palestinese sia solo un pretesto, naturalmente, viene sottolineato anche da parte israeliana. «Il problema è concettuale , non riguarda lo scambio di territori altrimenti lo avremmo già risolto ieri. l'obiettivo è solo distruggere Israele per costruire il Califfato», è l’analisi, senza perifrasi, di Elazar Cohen, ministro consigliere dell’Ambasciata d’Israele in Italia. Le soluzioni non mancano rispetto ad un quadro angosciante per il futuro del MO e dell’Europa tutta, ma tutte passano da «una vittoria dell’Islam moderato». La situazione libanese poi è la chiave dell’incapcità erupea di svolgere un ruolo, che potenzialemnte posside, ma che non riesce ad esprimere al di fuori di una pericolosa astrattezza. Un pericolo che era stato evidenziato già da tempo e che può essere stigmatizzato dal contenuto di uno dei paragrafi del libro di Pierre Chiartano che potete leggere di seguito.
Tratto dal libro «La difesa dell’Occidente» di Pierre Chiartano con prefazione di Renzo Foa (edizioni Liberal) ppgg 184-187
«La grande attività diplomatica del governo italiano è ambivalente. Può essere una porta aperta verso il dialogo e la decompressione, sia pur momentanea, di molte tensioni, oppure il cavallo di Troia per tentare un colpo di mano diplomatico, militare e politico. Come? Ipotizziamo. Col nuovo anno, come suggerito dai «fuori onda» di Chirac, Hezbollah riprende a muoversi. Se il contingente e gli stati che lo sostengono non sapranno muoversi rapidamente ed efficacemente porteranno Israele a reagire. Militarmente saremmo ostaggi sul terreno, politicamente resteremmo impiccati a qualsiasi proposta di mediazione che venga dall’Iran, da Hezbollah, anche da Hamas che già sulla vicenda delle dichiarazioni Pontefice si è proposta come interlocutore. Nelle ultime settimane si è avuto un arretramento sensibile, almeno si è reso palese, della parte moderata - se esiste – dei governi islamici. L’ultrafondamentalismo lo sente, lo registra, lo sfrutterà politicamente e sul terreno del terrorismo. Non facciamoci illusioni schiaccerà sicuramente il piede sull’acceleratore. Gli Stati Uniti cosa hanno in mano per rispondere? Un apparato militare, pur in crisi di fondi, formidabile, ma sempre meno efficace rispetto al confronto asimmetrico messo in atto. Una macchina diplomatica che oggi conta molto sul ruolo dell’Europa ma che , anche dopo la sconfitta del partito del presidente Bush alle elezioni di mid-term, non cambierà la rotta in politica estera, se non per alcuni aspetti marginali. L’Europa cosa potrebbe fare? Niente, in caso la crisi dovesse precipitare, perchè è debolissima politicamente e perchè, probabilmente si lavorerà per renderla ancora più fragile. E forse, ripetiamo forse, saranno proprio i rapporti allacciati in queste settimane dall’Italia ad impedirle di dare subito un segnale forte, univoco e credibile».
sabato 23 giugno 2007
Occident’s sleep
In the battle of the ideas that it sees to us to intercross the blades with the Islam, the West and its defenders are themselves peck the accusation of being lukewarm if not coward. It is Ayan Hirsi Ali that declared dumbfound for the “shyness” with which connects western contrast - or at all does not contrast - the arguments of the Muslim foundamentalism culture. “Sense of uneasiness” that Ali felt already in 2004 during the crisis of the Danish cartoons and then in the vicissitude of declarations of Benedict XVI in Ratisbona. In both cases the international press advised to ask for forgiveness. “But because the westerners are therefore uncertain with regard to all that is therefore wonderful in the West: the political freedoms, free press, free of expression, the parity of rights between men and women, gay and heterosexuals?”, it’s asked, astonished Ali. She quotes Tony Blair and his article “The battle for global values” on the pages of Foreign Affaris in February, in order to praise of the analytical feature that privileges the soft power, like tool of the comparison, but of critical the appraisals on the Corano that, practically, it’s considered “a reformist” text. In the review (The review of the reviews) that I edit for «Liberal Risk», in number 11, I had reviewed that article, emphasizing the same conceptual weaknesses: “Historical participation of the english premier, already resumed from the international press, is that one introduced on Foreign Affairs pages. An interesting reading in order to emphasize the critical passages of it puts into effect the crash between the West and Muslim terrorism. Values and not emergency (security), soft power and not imposition of our culture to a world substantially pre-westfalic are the right choises. They are these - a lot synthetizes - characterizing points more of the long analysis; a turned appeal to the Islam, but from which shine through - perhaps - a suggestion for “evangelic” policy of Washington. To consider the Corano like a book “reformist” it can be a passage, a culturally useful key, in order to tie the distance of the birth of western modernity with the history of the muslim universe. It could be an attempt in order to pay compatible, therefore comprehensible to the players, two distances of civilization. It is a well known formulation many times over describing a Islam, in the Middle Ages, tolerant and crucible of cultures. The only weakness in this reading is perhaps theological; because he considered the sacred text of Muslims in the same way of the Bible, while it would be more right to compare it to the symbol of the Holy Cross. A fact that renders less agile the rational use of the contents of the Corano, according to a logical dialectic that does not hold account of the important aspect of the “word”. We cannot read the sacred text of the Islam - it would be better to define it symbolic - through the cartesian means of “reason”. We would risk tragic mistakes. An aspect that could make to less appreciable the speech of Blair winning for fundamentalist Muslim audience (even if not radical). The right attempt however remains, from part of one of the more important of western democracies statesman, to open a dialogue with those who Samir Kassir - ill-fated father of the libanese spring - defined “the poor devils of the history”. Just on this argument the British leader supplies the better side to the “pontoniers” of the dialogue, above all to those Muslims. He untangles the concept of civilization from its western characterization and transforms the war of the terror to the democracies, in one universal challange between hope and fear. One right chosen, from the media and political point of view. A battle in order to conquer the hearts and the minds of the “multitudes” - it would say Toni Negri - and to make to gain the values and modernity. To the end the renter of Downing street nozzle an appeal for the defense of the West, against the politician cynicism and for the transformation of the ideals in realpolitik”. Now Ali blinks us in face a truth who we know, but that we think it’s better not to acknowledge in order not to burn the paths of the dialogue. But he will be then therefore? “Tony Blair and the Pope should not be embarassed, would have to feel itself less to uneasiness in asserting that XXI the century is begun with a battle of the ideas. Those of the West against those of the Islam. And Islam and liberal democracies are incompatible”. Then naturally Ayaan Hirsi opens to the dialogue, with careful extension to the traps of the generalization, but it does not lose the conceptual kernel of the critic: “The culture Muslim is fundamentalally anti-western”. In the muslim schools, that would have the same rights to exist of those catholics, protestants or Jewish, they are teaching to hate for the Hebrew, the separation from «infidels» and the virtues of the jihad. Reciprocity in the relationship with the other faiths does not exist. “If the Muslims can make proselytism in the Vatican City, because the catholics can’t do the same in Mecca?». In the Organization of the Islamic Conference, two countries are democracies. “Both fragile and corrupts, face the risk to be overtaken from the agents of pure Islam”. If Turkey has the safety valve of an army caretaker of the kemalist laicism, Indonesia is lacking. In both the women still play an active role in politics, but they are perceived like the enemy to pull down, as the presence of the women in the public life were the last obstacle to the advent of the true Islam. For Ali - today she’s resident fellow at American Enterprise Institute – it’s basic to understand the differences between Islam and the West «why one is so great and the other so low». It’s usefull to gain this battle of ideas in order to save our civilization.
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