venerdì 27 luglio 2007

Sergio Romano: Stato e globalizzazione



Pierre Chiartano intervista Sergio Romano: da Stiglitz a Fukuyama, il concetto di Stato e globalizzazione. Da questi temi è stato tratto un paragrafo del libro «La difesa dell'Occidente» (ed. Liberal) con prefazione di Renzo Foa

Abbiamo voluto chiedere un parere a Sergio Romano, uno dei più acuti analisti di politica internazionale dalla vasta esperienza diplomatica, professore, editorialista ed autore infaticabile di decine di pubblicazioni sulla storia del nostro Paese e del rapporto dell’Italia con il resto del mondo.

Ha ragione Fukuyama quando afferma che sia stato messo l’accento in modo acritico sull’abbandono del ruolo dello Stato come stava prendendo forma all’interno delle forti dinamiche della globalizzazione. Alla riduzione di ambiti andava affiancata una maggiore incisività del ruolo?

Ho l’impressione che vi sia stata, negli anni Novanta, una moda, una tendenza ideologica, un’ortodossia che proclamava il progressivo declino dello Stato a favore della spontaneità organizzativa della società, del mercato, dell’economia. Come tutte le tendenze, come tutte le mode possono anche dare risultati positivi, creano il clima adatto a certe riforme che sono necessarie e che vengono così meglio realizzate. Attenzione però, che quella tendenza ideologica non è stata mai pienamente realizzata. Non è vero che lo Stato abbia smesso di esercitare le sue funzioni semplicemente perchè un numero crescente di intellettuali e ideologi ne proclamava il declino. Lo Stato ha continuato ad esercitare le sue funzioni e mentre da un lato deregolamentava, così come ci avevano suggerito di fare la signora Thatcher e il presidente Reagan, dall’altro non passava giorno senza che introducesse nuovi regolamenti. Non dimentichiamo che il Mercato unico europeo, uno dei risultati più positivi di questa tendenza prevalente, è stato attuato a colpi di norme, di direttive, di leggi perchè altrimenti non sarebbe mai stato realizzato. Occorre quindi sempre fare una distinzione fra le idee prevalenti, in un certo periodo della storia, interessanti e che possono avere anche ricadute positive, e la realtà che è tutta un’altra cosa. È vero ciò che afferma Fukuyama, cioè che quella tendenza a considerare lo Stato come un carciofo a cui bisognava togliere una foglia alla volta, oggi sia meno proclamata e sentita come vera. Troviamo meno gente che affermi «meno Stato, più società», forse perchè il pendolo sta oscillando dall’altra parte. Rispetto a queste tendenze ideologiche occorre manifestare un certo distacco perchè tendenzialmente non sovvertono mai la situazione preesistente.

Anche la crisi e la stagnazione economica aumentano l’incertezza e la necessità di sentirsi tutelati

Certamente, perchè queste tendenze vengono influenzate dagli stati d’animo, dalle psicologie delle società in un determinato momento. Il fatto che per le economie occidentali le cose non siano andate molto bene negli ultimi anni, ha avuto l’effetto di rivalutare la funzione dello Stato.

Ma nella percezione dei cittadini con la scomparsa di un processo identificativo consolidato come quello di nazione, temperato dai valori della democrazia, è venuto a mancare qualcosa di immateriale o sono le necessità economiche a dominare?

Indubbiamente nel momento in cui la situazione economica non è positiva ed il mercato non produce automaticamente il benessere che invece si era pensato fosse capace di produrre i cittadini si ripiegano su se stessi sulle istituzioni con cui hanno maggiore dimestichezza e familiarità, pensando di avere qualche vantaggio.

È un’immagine riproducibile per tutti gli Stati europei?

I singoli Stati dell’Unione europea, anche quelli sono stati, in qualche modo, rivalutati nelle loro funzioni durante gli anni. Perché in una situazione economica non buona, in una fase in cui la modernizzazione minaccia i privilegi, le condizioni sociali di un certo numero di gruppi, ciascuno si ripiega su ciò che lo ha maggiormente garantito in passato. È ciò che è accaduto all’interno della Ue con la rinazionalizzazione, nei limiti del possibile, delle politiche economiche. Non credo però che sia una tendenza destinata a durare nel tempo, se guardo con distacco storico vedo che gli Stati europei, a parte queste oscillazioni del pendolo, continuano a perdere sovranità che rimane la grande tendenza di carattere storico. Il carattere nazionale dello stato è un processo che ha avuto il suo massimo fulgore fra il 1848 ed il 1918, non è iscritto nelle tavole della legge della storia universale.

Stiglitz nella sua analisi, in buona sostanza, afferma che i modelli economici dovrebbero essere flessibili rispetto al genius loci dei Paesi su cui vanno ad incidere. Meno grafici e parametri e maggiore mediazione culturale?

Stiglitz è una persona molto fine e intelligente. Credo che questa sia la constatazione di quanto certe ideologie del mercato come supremo regolatore delle fortune umane forse erano destinate a scontrarsi, nel tempo, con situazioni che non ne confermavano la validità. La mondializzazione, che è un fenomeno di lunga durata e che, di per sè, è un fenomeno positivo, ha messo in discussione la prosperità di alcuni gruppi sociali che, bene o male, all’interno dello Stato nazionale erano riusciti a vivere. In altre parole i tessili italiani soffrono e, naturalmente, chiedono allo Stato di essere aiutati perchè vedono la loro sorte messa a repentaglio. Questo porta a mettere in essere delle misure che ritardino questo declino di alcuni gruppi sociali. In tutte le società europee c’è una certa paura della modernizzazione e della mondializzazione, fa parte degli alti e bassi della vita di una nazione.
C’è chi ne approfitta e cavalca con coraggio la modernizzazione e c’è chi non lo fa. Alla fine chi deve scomparire, scompare.

Arriviamo al problema Cina, un gigante che qualcuno vede già come protagonista di una nuova competizione bipolare con l’Occidente a guida americana. Sviluppare una middle class per forzare la mano al partito comunista cinese, verso un percorso di riforme, non sembra dare i risultati sperati. Tenendo conto della complessità della situazione qual’è la chiave di lettura dell’Impero di Mezzo per i prossimi anni?

Il problema della Cina è che sta crescendo molto dinamicamente, in condizioni di sottosviluppo sociale, questo le permette di conquistare il mercato con prodotti in competizione con molte industrie europee. Benissimo, però contemporaneamente la Cina diventa, a sua volta, un mercato. Se lei è italiano e non può vendere aerei alla Cina, sentirà molto la crisi dei tessili, ma se lei è tedesco o francese e può vendere aerei a Pechino non sentirà questa crisi. È un problema nostro, non della Cina. Noi ci siamo in qualche modo impigriti negli ultimi vent’anni, abbandonando le industrie che ci avrebbero aiutato a cogliere le occasione che il mercato cinese ci offre. Siamo sul versante dei perdenti. Altri Paesi sono contemporaneamente perdenti per certi settori e vincenti per altri.Sul problema dello sviluppo della democrazia il Paese rappresenta un modello del tutto inedito. Non era mai accaduto nel mondo che un sistema autoritario, totalitario almeno nominalmente, con un partito unico ed un forte controllo sulla società sul piano ideologico, fosse stato capace di liberare le grandi energie economiche del Paese con tassi di sviluppo che tutti conosciamo. In generale eravamo stati educati a pensare che, nel momento in cui si formano dei ceti economici dinamici che si rafforzano e si sviluppano, si creano le condizioni per la democrazia. Perché ad un certo punto, questi ceti vorranno influire sul quadro legislativo, chiederanno garanzie e maggiore autorità. Abbiamo sempre pensato che questo sistema cinese non fosse destinato a durare indefinitamente, perchè contiene al suo interno una incompatibilità fra l’autorità e la rigidità del sistema politico e la straordinaria flessibilità del sistema economico. Io continuo a pensare che sia così, che non possa durare all’infinito. Però quello che conta in politica è la previsione, potrei avere anche ragione ma se l’avessi fra cinquant’anni che senso avrebbe?

Pessimista?

Non sono né pessimista né ottimista. Se chi sta facendo affari con la Cina dovesse dar retta a coloro che fanno queste considerazioni, commetterebbe un errore, perchè intanto potrebbe sviluppare ottimi affari, e se il sistema reggesse per altri dieci anni avrebbe anche ammortizzato l’investimento. Il sistema non dovrebbe essere destinato a durare perchè ha una contraddizione, ma questo lo diciamo noi soltanto perchè non abbiamo assistito a nulla di simile nella storia. E se questa fosse la prima volta?

mercoledì 25 luglio 2007

«La difesa dell'Occidente» è stato segnalato su «Pianeta Libro» del Ministero BB e AA Culturali





«Pianeta Libro» è un'attività del Ministero dei Beni e delle Attività culturali che vuole promuovere l'attività dell'Istituto per il Libro. «La difesa dell'Occidente» è stato segnalato fra le novità di giugno 2007

L’Istituto per il Libro (IPL) è stato creato alla fine del 2005 nell’ambito della Direzione generale per i Beni librari e gli Istituti culturali per dare maggiore rilievo al libro e alla lettura nelle politiche dell’Amministrazione pubblica. L’Italia è un Paese in cui si legge poco e tende ad aumentare la forbice tra non lettori e lettori occasionali (la gran maggioranza) e i cosiddetti “lettori” forti (una minoranza, seppur agguerrita). Per questo motivo la nascita dell’IPL è un primo passo importante, fatto pensando a una sistemazione organica del settore, su un modello europeo.L’Istituto ha ben presente che l’obiettivo finale è il lettore, reale o potenziale. E che l’”obiettivo” deve diventare, da subito, un soggetto da coinvolgere, un attore partecipe. L’IPL si propone di raccogliere, coordinare e rilanciare i progetti che rispecchiano e veicolano un’idea del libro come elemento vitale e “amichevole” inserito nell’esistenza quotidiana, agendo perché prevalga una diversa qualità della proposta culturale in questo campo. Pertanto l’IPL, intende fondare i suoi programmi sul coordinamento delle energie e delle iniziative espresse sia dalle realtà culturali e dalle istituzioni locali (Regioni, Province, Comuni), sia da tutti i soggetti che compongono la filiera del libro. Questa azione, sostenuta da un programma di comunicazione a lungo termine, attraverso il coinvolgimento delle istituzioni e dei media, si incentrerà con le attività istituzionali a sostegno della diffusione del libro e della lettura in Italia e all’estero (partecipazione a Fiere, incentivi alle traduzioni, iniziative nelle scuole e nelle biblioteche) e si dispiegherà in una serie di eventi organizzati dall’Istituto per il Libro, che interesseranno numerose realtà italiane (soprattutto del Centro e del Sud) a partire dal mese di ottobre 2006.

venerdì 20 luglio 2007

Licenza d'uccidere



Vladimir Putin definisce «mini-crisi» la lotta fra spioni scatenata con Londra. Abbassa i toni, forse pagando pegno ai buoni rapporti con Bush. Nell’amministrazione americana c’è chi sconti non ne fa al nuovo zar del Cremlino e non è mai andata tanto per il sottile durante i viaggi in Russia. La regola della legge che va rispettata ovunque anche nella sconfinata Russia dispersa fra Occidente ed Oriente, dove la gente ama Putin ed il suo modo spregiudicato di fare politica. La crisi nasce dall’affaire Litvinenko, un’intera sezione dell’Fsb incaricata per la sicurezza interna, che si ribella ad ordini che considera «infami». Esecuzioni politiche ed implicazioni negli attentati «ceceni» a Mosca, più qualche altra cosuccia che riguarda zar Vladimir. Molto interessante a questo proposito il documentario di Nekrasov con lunghe interviste a Litvinenko e video confessioni di agenti dell’Fsb. Nel libro «La difesa dell’Occidente» (Edizioni Liberal) di Pierre Chiartano con prefazione di Renzo Foa, si possono leggere diversi paragrafi dedicati alla politica del segretario di Stato Rice in Russia. Ne esce uno spaccato dei rapporti fra Occidente e Mosca che già faceva presagire la crisi che stiamo vivendo in queste settimane: «La guerra agli oligarchi che qualcuno chiama “decolonizzazione” è assomigliata più ad una pulizia interna degli amici degli americani, che avrebbero voluto introdurre concorrenza e meritocrazia piuttosto che un’operazione di trasparenza di potere. I cosiddetti oligarchi sarebbero stati un contropotere che avrebbe fatto da sponda interna a quella “spocchiosa” della Rice, che pretendeva di dettare le regole della democrazia. A Putin, che ben incarna la trinità imperatore-stato-popolo, è sembrato uno scenario da cancellare. Insomma l’ex uomo del Kgb ha voluto togliersi dai piedi chiunque potesse ostacolarlo nel suo progetto per una nuova Russia, da realizzare con i metodi zaristi, naturalmente. Boris Berezosvkij esiliato a Londra si lecca le ferite e piange i suoi morti, così come Vladimir Gusinskij, entrambi fortunatissimi rispetto a Mikhail Khodorkoskij, internato in Siberia. Per gli altri la vendetta è stata servita con una mano tesa, che quasi nessuno a rifiutato. Oggi le vicende Politoskaja e Litvynenko riaccendono l’interesse dell’Europa verso un vicino che da derelitto del dopo muro, grazie all’oro nero e al gas, sta vivendo un‘età dell’oro, che ne ha riacceso progetti e mire. Cecenia, Georgia e Ucraina sono nella lista nera dell’agenda Putin, con un’Europa tiepida ad interferire, per paura che la bolletta del gas russo possa levitare o i rubinetti chiudersi. Putin vede la Nato come «l’America vestita d’Occidente», e si destreggia con Pechino aiutando la Cina a fare da argine al potere americano in Asia centrale. Vuole però evitare di fare il vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro Usa e Cina. Un gioco complesso di partnership economica e conflitto geopolitico, quello fra Washington e Pechino, che il «mandarino» di San Pietroburgo cercherà di sfruttare fino all’ultimo a suo favore. L’antico pendolo fra democrazia d’Atene e satrapie orientali si ripropone in salsa russa. Dove al modello di aperture di mercato del Partito comunista cinese diventato imprenditore-padrone, si contrappone la democrazia di quei rompiscatole d’oltre Atlantico, che non sanno di cose orientali, di quanto la gente sia abituata a piegare la testa - rimpiangono Stalin e Breznev, stando a recenti sondaggi - a guardare cinicamente al proprio interesse, e abbia bisogno di essere governata con polso fermo. Le circa 18mila testate atomiche stoccate chissà in quale maniera, sembrano essere diventate più un problema che l’arma residua del potere che fu, rispetto alle materie prime di cui la Russia è ricchissima, armi politiche ben più moderne ed affilate. La Germania di Schroeder guardava a Mosca per salpare con l’Europa verso Est, la Merkel è più saldamente ancorata al Nord Atlantico, ma fa quello che può, vincolata dalla politica del day by day che ha fame di soldi, energia e consenso per tenere in piedi una Grosse Koalition un po’ traballante. Così la Russia torna ad essere una issue al dipartimento di Stato e le proxy war del Medio Oriente, e non solo, acquistano una valenza da scontro globale per l’assestamento di un nuovo balance of power». (il libro o puoi acquistare on-line su Internet Book Shop, oppure consultare l’elenco delle librerie su http://difesadelloccidente.blogspot.com).
Condoleezza Rice, ieri, da Lisbona, è tornata all’attacco con un affondo a Putin riguardo al caso Litvinenko: «La Russia deve onorare la domanda d’estradizione e dovrebbe cooperare in pieno con le autorità britanniche». Il riferimento all’estradizione riguarda uno dei principali sospettati dell’omicidio Litvinenko cioè l’ex agente Andrei Luguvoi che in realtà, secondo indiscrezioni, sarebbe stato il sicario di scorta al bar del Millennium, in caso il primo tentativo d’avvelenamento fosse fallito. Litvinenko quando arrivò a quel incontro nel centro della city sarebbe già stato avvelenato dal polonio. Sullo sfondo c’è la politica, con l’allontanamento di Putin dall’Occidente, l’abbandono dei trattati Cfe e l’ostracismo contro lo scudo anti-missile, unica difesa dell’Europa contro un’eventuale minaccia Iraniana. Ora il giovane capo del Foreign Office, David Milliband, incassa l’appoggio di Washington e le critiche Di Vladimir Cizhov rappresentante russo in seno alla Ue. Putin minimizza e forse ha ragione, ben sapendo che le vere preoccupazioni di Washington sono molto più a Oriente.

martedì 17 luglio 2007

Lo strano Occidente di alcuni europei



Il ministro degli Esteri italiano critica l’Occidente che non vuole trattare con Hamas. «È una forza popolare che ha vinto elezioni democratiche, con questo atteggiamento si fa un regalo ad Al Qaeda», sentenzia oggi dalle colonne del Corrierone. E aggiunge che «con il boicottaggio l’Occidente non dà una straordinaria prova di democrazia». Bene. Cominciamo dall’inizio con una precisazione: anche il nazismo raggiunse il potere tramite elezioni democratiche. Lo sappiamo bene che non bastano le procedure democratiche per creare istituzioni democreatiche. Però vogliamo raccogliere la provocazione di D’Alema e chiedergli a che Occidente (o accidente) si riferisce. Perché in quella polveriera non è con la concertazione che si può risolvere nulla. Fassino e D’Alema affermano che sedersi ad un tavolo è già un riconoscimento fra le parti. Usano un linguaggio utile per le contrattazioni sindacali o per il levantinismo dei palazzi romani che è poco imparentato con la realtà. Hamas può anche sedersi al tavolo ma il suo obiettivo dichiarato è cancellare Israele. Oggi è un obiettivo meno presuntuoso di un tempo visto che la pax americana in Medio Oriente è traballante e l’alternativa asiatica è dietro l’angolo. Basta saper aspettare. Se questa fosse la prospettiva allora D’Alema avrebbe cento, mille ragioni per impantanare il dialogo su tavoli inutili quanto pericolosi. Perché pericolosi? Perché quando tratti e un contraente bara – riprende l’azione violenta, ad esempio – tu paghi un prezzo in credibilità rispetto al tuo Paese e indebolisci la causa «moderata». Ogni apertura europea, anche formale, anche semplicemente sotto le spoglie di comprensione politica, rischia di alimentare la convinzione che ci siano alleati lungo la strada della violenza. Indipendentemente dai comportamenti corretti o sleali. Massimo D’Alema è figlio di una tradizione culturale che fa della «ragion di Stato» la quintessenza della politica, anche negli affari esteri. Slega l’etica delle persone da quella degli Stati e non giudica i comportamenti per come banalmente si presentano. Gli Usa da Jefferson fino a Wilson – con l’unica eccezione di Theodore Roosvelt – a Clinton e Bush Jr non distinguono la morale dei singoli individui da quella degli Stati, entrambi devono essere giudicati da una prospettiva unica. Dimostrano così d’essere figli di una cultura democratica più matura, meno oligarchica e meno polverosa di quella che contraddistingue molte cancellerie europee e la Farnesina. Il modello angloamericano di diplomazia caratterizza in parte anche Israele perchè condivide un’importante matrice etica di origine culturale (molti di questi temi sono trattati nel libro «La difesa dell’Occidente» Edizioni Liberal di Pierre Chiartano con prefazione di Renzo Foa). Questa doppia misura, da cui deriva un doppio linguaggio, provoca danni enormi e incomprensioni straordinarie. Se caliamo questa realtà nella già complicatissima situazione mediorientale il disastro è servito. Non mettiamo in dubbio la «serietà» di Hamas, ma aggiungiamo che anche i nazisti delle SS erano gente «seria e onesta» con buona pace delle bizzarrie che D’Alema legge nel «suo» Occidente.

lunedì 16 luglio 2007

Pechino e il signor Kennan


«In un rapporto riservato, il Pentagono ha di recente ribadito che l’America dovrà contenere la Cina come contenne l’Urss, più che la Russia», la nota in una corrispondenza di Enni Caretto da Washington che conferma le tesi del libro «La difesa dell’Occidente» (Edizioni Liberal) di Pierre Chiartano con prefazione di Renzo Foa. L’autore ha più volte scritto che la politica americana nei confronti di Pechino sarebbe giunta ad elaborare una nuova dottrina Kennan, una politica di contenimento che fosse modulare alle aperture – o chiusure – di quel Paese, alle riforme democratiche oppure ad una nuova politica di potenza che potesse sfidare l’Occidente. Una politica necessariamente progressiva, vista l’attuale impossibilità da parte cinese di un confronto militare con Washington. In questo contesto prenderebbero forma numerosi modelli di conflitti atipici, non palesi, dal commercio alla diplomazia economica, dal soft power declinato in varia maniera agli scandali finanziari. «È il potenziale rapporto sino-islamico, che sta minando la vecchia geopolitica mediorientale con prospettive strategiche», si legge nell’introduzione al libro. Quindi il confronto tra Occidente ed Islam sarebbe solo il primo gradino di quello ben più impegnativo col dragone cinese. «Il monito non può essere ignorato neanche dall’Europa» continua Caretto, citando il documento riservato del Pentagono «ma per qualche tempo il pericolo sarà in gran parte commerciale», continua l’intervento sul Corriere del 15 luglio 2007. «La grande fame di petrolio per alimentare la forte crescita del gigante asiatico portava, già a metà degli anni Novanta, a produrre una geopolitica energetica aggressiva che minava, consapevolmente o meno, la leadership occidentale, stabilendo le basi per un diverso balance of power mediorientale e rendendo meno attraente e funzionale il modello di pax americana (...) È fuori di ogni dubbio che l’obiettivo principale di questa nuova alleanza sia minare lo Stato d’Israele, come tessera di un domino che provocherebbe il collasso quasi immediato dell’Europa» è la conferma di queste tesi largamente anticipate nell’introduzione del libro e poi nei contenuti dei quattro capitoli che costituiscono l’ossatura dell’analisi. Il comportamento attuale di Putin sarebbe solo uno specchietto delle allodole per Washington e Bruxelles. Mosca sapendo di poter diventare un ago della bilancia cerca di non diventare il vaso ci coccio in mezzo a quelli di ferro americano e cinese, cercando di trarre il maggior profitto possibile dalla situazione. Primo ritagliandosi una certa indipendenza politica. Secondo, vendendo al pubblico russo l’apparenza di un nuovo protagonismo internazionale del Cremlino, puntellando il già consolidato potere di «zar Putin». In questo gioco che sarà sicuramente «senza quartiere» l’Europa rischia di soccombere già sul medio periodo se non dovesse decidere per una scelta di campo decisamente filoatlantica. L’affare Litvinenko e la stance cinese in politica estera sono chiari messaggi sullo stile «disinvolto» e a tratti criminale con cui le nostre elite politiche dovranno confrontarsi. L’Europa in breve sarebbe dominata dalle mafie russe e cinesi e la democrazia e le libertà solo un ricordo.

mercoledì 4 luglio 2007

Shoesless George Bush

by Daniel Pipes
New York Sun
July 3, 2007

When Dwight D. Eisenhower dedicated the Islamic Center in Washington, D.C., in June 1957, his 500-word talk effused good will ("Civilization owes to the Islamic world some of its most important tools and achievements") even as the American president embarrassingly bumbled (Muslims in the United States, he declared, have the right to their "own church"). Conspicuously, he included nary a word about policy. Exactly fifty years later, standing shoeless, George W. Bush rededicated the center last week. His 1,600-word speech also praised medieval Islamic culture ("We come to express our appreciation for a faith that has enriched civilization for centuries"), but he knew a mosque from a church – and he had more on the agenda than flattery. Most arresting, surely, was his statement that "I have invested the heart of my presidency in helping Muslims fight terrorism, and claim their liberty, and find their own unique paths to prosperity and peace." This cri du coeur signaled how Mr. Bush understands to what extent actions by Muslims will define his legacy. Should they heed his dream "and find their own unique paths to prosperity and peace," then his presidency, however ravaged it may look at the moment, will be vindicated. As with Harry S Truman, historians will acknowledge that he saw further than his contemporaries. Should Muslims, however, be "left behind in the global movement toward prosperity and freedom," historians will likely judge his two terms as harshly as his fellow Americans do today. Of course, how Muslims fare depends in large part on the future course of radical Islam, which in turn depends in some part on its understanding by the American president. Over the years, Mr. Bush has generally shown an increased understanding of this topic. He started with platitudinous, apologetic references to Islam as the "religion of peace," using this phrase as late as 2006. He early on even lectured Muslims on the true nature of their religion, a presumptuous ambition that prompted me in 2001 to dub him "Imam Bush." As his understanding grew, Mr. Bush spoke of the caliphate, "Islamic extremism" and "Islamofacism." What euphemistically he called the "war on terror" in 2001, by 2006 he referred to with the hard-hitting "war with Islamic fascists." Things were looking up. Perhaps official Washington did understand the threat, after all. But such analyses roused Muslim opposition and, as he approaches his political twilight, Mr. Bush has retreated to safer ground, reverting last week to decayed tropes that tiptoe around any mention of Islam. Instead, he spoke inelegantly of "the great struggle against extremism that is now playing out across the broader Middle East" and vaguely of "a group of extremists who seek to use religion as a path to power and a means of domination." Worse, the speech drum-rolled the appointment of a U.S. special envoy to the Organization of the Islamic Conference, directing this envoy to "listen to and learn from" his Muslim counterparts. But the OIC is a Saudi-sponsored organization promoting the Wahhabi agenda under the trappings of a Muslim-only United Nations. As counterterrorism specialist Steven Emerson has noted, Bush's dismal initiative stands in "complete ignorance of the rampant radicalism, pro-terrorist, and anti-American sentiments routinely found in statements by the OIC and its leaders." Sitting in the audience at the Islamic Center on June 27, 2007, three senior Bush administration staffers wore makeshift hijabs: Fran Townsend (far left), Assistant to the President for Homeland Security and Counterterrorism, NSC Senior Director for European Affairs Judy Ansley (left), and Under Secretary of State for Public Diplomacy and Public Affairs Karen Hughes (right). Adding to the event's accommodationist tone, some of the president's top female aides, including Frances Townsend and Karen Hughes, wore makeshift hijabs as they listened to him in the audience. In brief, it feels like "déjà vu all over again." As columnist Diana West puts it, "Nearly six years after September 11 — nearly six years after first visiting the Islamic Center and proclaiming ‘Islam is peace' — Mr. Bush has learned nothing." But we now harbor fewer hopes than in 2001 that he still can learn, absorb, and reflect an understanding of the enemy's Islamist nature. Concluding that he basically has failed to engage this central issue, we instead must look to Mr. Bush's potential successors and look for them to return to his occasional robustness, again taking up those difficult concepts of Islamic extremism, Shariah, and the caliphate. Several Republicans – Rudy Giuliani, Mitt Romney, and (above all) Fred Thompson – are doing just that. Democratic candidates, unfortunately, prefer to remain almost completely silent on this topic. Almost thirty years after Islamists first attacked Americans, and on the eve of three major attempted terrorist attacks in Great Britain, the president's speech reveals how confused Washington remains.

From www.danielpipes.org | Original article available at: www.danielpipes.org/article/4739

lunedì 2 luglio 2007

Le «armi» contro il terrorismo



Tra gli arrestati una donna e due medici. Sono loro a concretizzare l’immagine dei terroristi che hanno tentato di gettare nell’incubo delle auto-bomba di marca iraquena i cittadini di Sua Maestà. Professionisti addestrati a salvare vite che avrebbero organizzato il peggiore degli attentati. Un’esplosione nell’ospedale dove sarebbero confluiti i soccorsi con i feriti di Piccadilly. La scena raccapricciante dello scalo aereo di Glasgow «gli si staccava la pelle carbonizzata dal viso e dalle braccia e lui tirava pugni», con la descrizione del kamikaze che ha lanciato la jeep contro l’atrio partenze dell’aeroporto gallese, raccontano qualcosa che dovremmo avere il coraggio di analizzare senza paura. «Nelle indicazioni sull’arruolamento di combattenti del jihad occidentali la raccomandazione è quella di reclutarli con un livello di cultura alto. I ragazzi dell’ammiraglio Onishi Takijiro, padre della tattica kamikaze, appartenevano alle migliori università umanistiche giapponesi e pensavano di opporsi a quello che consideravano il molle Konfortismus (sinonimo di felicità) del liberalismo borghese. “Anche se saremo sconfitti, la nobiltà di spirito del corpo d’attacco kamikaze salverà la nostra Patria dallo sfacelo”, era la radice di quel pensiero che aveva animato giovanissimi rappresentanti della futura classe dirigente del Sol Levante. “Troppo intelligenti per credere alla retorica guerriera”, afferma Ian Buruma nel suo libro “Occidentalismo”, erano lontani dal vulnus militarista e si cibavano di letture legate alla tradizione europea razionalista, come Hegel, Nietzsche, Fitche e Marx. Più vicini “ai guardiani della frontiera occidentale del VIII secolo”, che allo spirito samurai, che pur giocava un ruolo sul piano simbolico. Quindi più debitori del germanico Volk di patrioti eroici, che al “vento divino” creato dalla dinastia Meji per trapiantare il culto dell’imperatore, su base shintoista, nella società giapponese in piena rivoluzione industriale e contrastare, sul piano culturale, un Europa che loro consideravano forte, grazie al ruolo unificante del cristianesimo» (tratto dall’introduzione al libro di «La difesa dell’Occidente» Edizioni Liberal). Ciò significa che il confronto, lo scontro è e sarà duro, ma soprattutto è e sarà culturale. Un campo dove l’Occidente può schierare truppe più addestrate e agguerrite di quelle schierate in Iraq. Vuol dire che il confronto culturale deve subire uno scatto qualitativo notevole, che l’Occidente deve tirare fuori i gioielli di famiglia, quelli che Ayaan Hirsi Ali – il politico olandese, di origine somala, che ha dovuto riparare negli Usa - ci accusa di non saper più difendere. L’uomo come fine e non come mezzo da cui nascono le tradizioni che hanno dato vita ai concetti di libertà, di habeas corpus, di equilibrio fra i poteri che oggi noi occidentali sembriamo non essere più in grado di difendere. È la nostra identità in via di dissoluzione ad essere il nostro peggior nemico. Il terrorismo islamico lo sa e continuerà a colpire finché non sapremo dimostrare che la battaglia del terrore nichilista non riesce a vincere. Gli inglesi ci hanno dato un’ulteriore dimostrazione di non farsi piegare dai meccanismi della violenza cieca. A Wembley in settantamila hanno risposto che la paura non vince, che il terrore non paga, che l’Occidente cosciente della propria forza culturale, delle tradizioni e dell’umile consapevolezza dei limiti può essere difeso.