venerdì 24 agosto 2007

Chinese connection




Non saranno i vecchi Tupolev 95 decollati il 17 agosto da sette basi russe a riattivare i meccanismi della guerra fredda. Neanche la capacità di trasportare 12 testate nucleari in quasi ogni angolo del globo potrà far dimenticare che i vetusti Bear o i Tu-160 Blackjack non fanno più paura. Incomincia a preoccupare, invece, la costante ripetizione di manovre congiunte del patto di Shangai (Shangai Cooperation Organization). Cina popolare, Russia, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan e Uzbekistan fanno parte di un’alleanza di mutuo soccorso che potrebbe creare qualche problema agli interessi occidentali in Asia centrale e, col tempo, nell’Oceano Pacifico, con riferimento ai due principali alleati. Che i rapporti fra il Cremino e l’Occidente non siano più quelli di una volta è noto. La genesi di questi problemi è raccontata con intelligenza in un capitolo del libro “La difesa dell’Occidente” (ed. Liberal, con prefazione di Renzo Foa) da Pierre Chiartano, analista, giornalista, esperto di questioni militari e culturali, che ha messo allo scoperto il problema Putin, ben prima che la stampa internazionale si accorgesse di quanto stesse accadendo in Russia. Paese che vai… democrazia che trovi, potrebbe essere la cifra per interpretare l’evoluzione russa e il suo sguardo sempre più rivolto ad Oriente che sembra snobbare Europa e Washington. «In questa situazione, la Russia dovrebbe sviluppare relazioni con le ex repubbliche sovietiche procedendo egoisticamente dai suoi interessi nazionali. La solidarietà non può permettere al dirigente del Turkmenistan d'infrangere i diritti dei Russi etnici, all'Ucraina di rubare il gas russo, e alla Bielorussia di perseguire giornalisti russi. E gli interessi geopolitici russi nel Caucaso settentrionale impongono la resa dei conti con la Georgia» è il pensiero di Sergei Markedonov, capo-dipartimento all'Istituto di Analisi Militare e Politica, che ha rilevato il fallimento completo della CSI nel tentativo di mantenere uniti i cocci dell'Unione Sovietica, forse dimenticando le libertà conculcate all’interno anche dei propri confini come le vicende Litvinenko e Politoskaya hanno dimostrato. La Russia oggi può solo pompare un po’ di “petro-rubli” in un vecchio apparato militare che fa acqua da tutte le parti. Uno spettacolino a favore del pubblico russo e degli ex membri dell’Urss che oggi guardano con interesse al nuovo zar. E’ l’intesa cinese che diventa pericolosa se osservata alla luce di quello che è il difficilissimo riequilibrio ancora in atto nel dopo guerra fredda. Pechino vuole diventare potenza marittima per proteggere i preziosi rifornimenti petroliferi, necessari per tenere in vita la sua incredibile crescita, fatta a spese di ambiente e libertà civili e sociali. Stesso il motivo che spinge ad una presenza militare cinese in Asia centrale, per garantirsi le vie di comunicazioni col meno prezioso petrolio russo (carico di zolfo e impurità) e col più utile gas di cui quelle regioni sono ricche. Un discorso che vale per il Medio Oriente e alcune aree dell’Africa come il Sudan e la Nigeria, oppure per l’oro nero del nuovo quadrilatero “chavista” in Sud America. Le mosse sono state evidenti già dalla fine degli anni Novanta e predispongono un futuro a tinte grigie, dove al vecchio confronto bipolare si sostituirà un meno definito confronto asimmetrico nei mezzi (proxy wars, guerre economiche, confronto sul soft power), ma preciso nei contorni strategici, per la conquista di un egemonia globale. Il cuore e l’anima del globo sul tavolo di un confronto giocato senza esclusione di colpi e di mezzi. Molto più pericoloso della guerra fredda, ingessata da una dinamica bipolare e dalla deterrenza nucleare. Quest’ultima, in particolare, è oggi priva delle condizioni ideali per funzionare come freno ai passi falsi, alle decisioni avventate. Oggi, purtroppo, ogni opzione è aperta, ogni pericolo è reale e possibile.

sabato 4 agosto 2007

"L'ultimo limes" - Recensione esclusiva per il Blog - di Massimo De Angelis

Il libro La Difesa dell’Occidente, di Pierre Chiartano, è stimolante sin dal titolo. Il sostantivo “difesa” rievoca subito l’11 settembre 2001, quando tutte le tv del mondo recarono la striscia “Usa under attack”. Chi può dimenticare?
Da allora gli Usa si sono sentiti chiamati alla difesa. Alla difesa dall’ attacco del terrorismo islamista di Al Quaeda. Una difesa interpretata dagli Usa come difesa di tutto l’Occidente e dei suoi valori. E qui il discorso si è complicato. Infatti, gran parte dei Paesi europei, dopo aver tributato attestati di solidarietà in settembre, coinciarono immediatamente dopo a prendere le distanze dalla linea difensiva degli Usa, da Enduring freedom. E qui veniamo al secondo sostantivo del titolo, Occidente: la sua univocità è in questione. Non è problema di metodi e di strategie diverse ma innanzitutto di identità. E qui si arriva alle guerre culturali, per usare un bel termine in voga negli Usa. Guerre culturali che spaccano l’Occidente e anche gli Usa. A partire dagli anni Settanta. Che cosa è accaduto? Teorie decostruzioniste e postmoderne hanno eroso il concetto di verità. Sul piano sociologico-storico si è proceduto a una rivalutazione delle culture “oppresse”. La miscela tra quelle teorie filosofiche e queste revisioni storiografiche hanno portato alla denuncia-condanna della cultura occidentale che non poteva accampare nessuna “superiorità” culturale e morale e che dunque vedeva considerati i suoi privilegi frutto di un sopruso. Questo ha portato al multiculturalismo negli Usa, che si è mescolato col terzomondismo marxista in Europa e da ultimo si è tradotto nel convenzionalismo e relativismo morale sia in Europa che negli Usa. Abbiamo allora detto: guerre terroristiche da un lato guerre culturali dall’altro. Sono due piani ben distinti ma anche interconnessi persino nelle biografie dei nemici dell’Occidente, a cominciare da Bin laden e dai kamikaze contro le Torri gemelle. Sono due piani, due livelli cui l’indagine di Chiartano non sfugge ma su cui fa anzi perno. In questo senso il suo libro è bidimensionale: non perde mai di vista gli spazi dello scacchiere strategico internazionale e dall’altro versante i fondali del conflitto culturale. Delinea scenari o talora anche solo fotogrammi dei conflitti economici, energetici, finanziari, militari, sulla scorta di studi di think tank mondiali e in primo luogo statunitensi; con squarci suggestivi ad esempio sulle connection tra Cina, Iran e il Venezuela di Chavez. Lumeggia i dilemmi culturali dell’Occidente, la sua drammatica erraticità, l’oblìo si sé. Innanzitutto dell’Europa. Il dissidio dell’Europa dagli Usa su Enduring freedom rischia di essere un nuovo tradimento dei chierici. Perché il conflitto non è sul modo. E’ sulla sostanza. L’Occidente ha prodotto e produce innovazione scientifica e tecnologica e quindi potenza economica, finanziaria, militare. A fondamento vi è la cultura, l’umanesimo occidentale, la libertà occidentale. Il grande problema del nostro tempo non è che la Cina e altre aree del terzo mondo acquisiscano capacità economiche e tecnologiche. Il problema è che fanno questo senza acquisire i valori etico- politici. Ma una cosa è che enormi potenziali finanziari e dunque anche militari siano in mano a poteri democratici altra cosa che siano a disposizione di dittature. Altra cosa è che strumenti biotecnologici delicati innanzitutto dal punto di vista etico siano diffusi tra persone responsabili e informati altra cosa e che siano utilizzati tra popolazioni inconsapevoli. Questo è il cuore della sfida culturale oggi. Ma l’Europa ne è poco o nulla consapevole. E questo perché, come si diceva prima a proposito delle guerre culturali, l’Europa innanzitutto ripudia i fondamenti morali e religiosi della sua stessa civiltà, come da tempo ha messo in luce la ricerca di Jurgen Habermas. E’ questo il frutto del secolarismo dell’Occidente come analizza Michael Novak in un recente studio appunto sul secolarismo e la sua crisi in Europa dopo l’11 settembre. Il paradosso è dunque il secolarismo. Occidentale e anche arabo. Esso non è in grado di rispondere, al Cairo come a Parigi, al risentimento fondamentalista. Non è in grado di rispondere sul piano dei valori perché non capisce la portata della sfida. E non è in grado di rispondere sul piano politico militare perché il secolarismo non è in grado di mobilitare sufficienti energie morali per affrontare i costi di una risposta dura al fondamentalismo islamico. La questione, all’ osso è questa. E’ vero che i problemi nascono dal fatto che viviamo in società complesse che non vogliono rinunciare ad essere tali. Ma tale osservazione si riduce a chiacchiera se non si vede che quella complessità è il prodotto di una cultura e si dica pure di una civiltà e di uno spirito e che se si abbandonano questi presupposti quella complessità rimane senza fondamento e in certa misura senza senso.
Pierre Chiartano , nel suo libro, illumina l’insieme di tali questioni, afferra il filo d’Arianna indispensabile a muoversi nel labirinto di questo nostro tempo: l’Occidente è, innanzitutto e fondamentalmente, libertà politica ed economica, ma questa si fonda sulla libertà di coscienza e di pensiero la quale,a sua volta, ha a fondamento la coscienza religiosa la quale ha origine nel monoteismo ebraico-cristiano. Si può articolare e scavare quanto si vuole ma o si ha chiaro questo o si brancola nel buio. E L’Occidente brancola nel buio. L’Europa soprattutto brancola nel buio perché non ha conosciuto la rinascita ideale e morale che in America è stata definita neoconservatrice. Quella svolta consente di capire. Noi europei invece, non essendo più memori delle origini della nostra civiltà, avendole oblìate non sappiamo più qual è la nostra identità. Non sappiamo neanche perché e da chi difenderci. Abbiamo paura delle bombe, certo. Ma non siamo in grado di resistere moralmente e politicamente al potere che decide di farle esplodere. Meglio rossi che morti diceva un triste slogan ai tempi della guerra fredda. E oggi quanti sarebbero pronti a dire: meglio taliban che morti? Rischiamo allora di essere sopraffatti. Ma in realtà rischiamo di peggio. Rischiamo di non essere all’altezza, noi europei delle responsabilità che abbiamo verso la storia e verso il mondo. Perché oggi è imperativo costruire un mondo di pace. L’Occidente ha le maggiori responsabilità in questo compito perché è la parte di umanità più evoluta e con maggiori mezzi. Ma se dimentica questa sua superiorità morale e spirituale, allora non è in grado di corrispondere a tali resposabilità. E allora, un giorno potrebbe rispondere alla sfida di civiltà sulla base non della sua cultura e dei suoi valori, ma della sola paura e del semplice istinto di sopravvivenza. A quel punto la risposta potrebbe essere croccante. A quel punto la guerra mondiale che dal ’45 si considera impossibile potrebbe tornare ad essere una ipotesi realistica e credo davvero sia questo il rischio maggiore nascosto dall’eclissi dell’Occidente e la nuova colpa che da tale eclissi può derivare.

Massimo De Angelis, giornalista, membro del comitato scientifico Fondazione Liberal