lunedì 2 luglio 2007

Le «armi» contro il terrorismo



Tra gli arrestati una donna e due medici. Sono loro a concretizzare l’immagine dei terroristi che hanno tentato di gettare nell’incubo delle auto-bomba di marca iraquena i cittadini di Sua Maestà. Professionisti addestrati a salvare vite che avrebbero organizzato il peggiore degli attentati. Un’esplosione nell’ospedale dove sarebbero confluiti i soccorsi con i feriti di Piccadilly. La scena raccapricciante dello scalo aereo di Glasgow «gli si staccava la pelle carbonizzata dal viso e dalle braccia e lui tirava pugni», con la descrizione del kamikaze che ha lanciato la jeep contro l’atrio partenze dell’aeroporto gallese, raccontano qualcosa che dovremmo avere il coraggio di analizzare senza paura. «Nelle indicazioni sull’arruolamento di combattenti del jihad occidentali la raccomandazione è quella di reclutarli con un livello di cultura alto. I ragazzi dell’ammiraglio Onishi Takijiro, padre della tattica kamikaze, appartenevano alle migliori università umanistiche giapponesi e pensavano di opporsi a quello che consideravano il molle Konfortismus (sinonimo di felicità) del liberalismo borghese. “Anche se saremo sconfitti, la nobiltà di spirito del corpo d’attacco kamikaze salverà la nostra Patria dallo sfacelo”, era la radice di quel pensiero che aveva animato giovanissimi rappresentanti della futura classe dirigente del Sol Levante. “Troppo intelligenti per credere alla retorica guerriera”, afferma Ian Buruma nel suo libro “Occidentalismo”, erano lontani dal vulnus militarista e si cibavano di letture legate alla tradizione europea razionalista, come Hegel, Nietzsche, Fitche e Marx. Più vicini “ai guardiani della frontiera occidentale del VIII secolo”, che allo spirito samurai, che pur giocava un ruolo sul piano simbolico. Quindi più debitori del germanico Volk di patrioti eroici, che al “vento divino” creato dalla dinastia Meji per trapiantare il culto dell’imperatore, su base shintoista, nella società giapponese in piena rivoluzione industriale e contrastare, sul piano culturale, un Europa che loro consideravano forte, grazie al ruolo unificante del cristianesimo» (tratto dall’introduzione al libro di «La difesa dell’Occidente» Edizioni Liberal). Ciò significa che il confronto, lo scontro è e sarà duro, ma soprattutto è e sarà culturale. Un campo dove l’Occidente può schierare truppe più addestrate e agguerrite di quelle schierate in Iraq. Vuol dire che il confronto culturale deve subire uno scatto qualitativo notevole, che l’Occidente deve tirare fuori i gioielli di famiglia, quelli che Ayaan Hirsi Ali – il politico olandese, di origine somala, che ha dovuto riparare negli Usa - ci accusa di non saper più difendere. L’uomo come fine e non come mezzo da cui nascono le tradizioni che hanno dato vita ai concetti di libertà, di habeas corpus, di equilibrio fra i poteri che oggi noi occidentali sembriamo non essere più in grado di difendere. È la nostra identità in via di dissoluzione ad essere il nostro peggior nemico. Il terrorismo islamico lo sa e continuerà a colpire finché non sapremo dimostrare che la battaglia del terrore nichilista non riesce a vincere. Gli inglesi ci hanno dato un’ulteriore dimostrazione di non farsi piegare dai meccanismi della violenza cieca. A Wembley in settantamila hanno risposto che la paura non vince, che il terrore non paga, che l’Occidente cosciente della propria forza culturale, delle tradizioni e dell’umile consapevolezza dei limiti può essere difeso.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Well written article.