martedì 2 settembre 2008

La Grandeur d'Allah nella finanza



Parigi vuol battere Londra a suon di sukuk, le obbligazioni islamiche. È cominciata la corsa di Nicolas Sarkozy per superare i cittadini britannici in un settore in cui sono sempre stati campioni: gestire il proprio e l’altrui denaro. La Ville Lumière vuol diventare la nuova capitale finanziaria d’Europa, grazie alle banche musulmane. Pochi giorni fa Christine Lagarde, ministro delle Finanze transalpino, ha introdotto alcune misure per rendere il Paese un catalizzatore di fondi a livello globale. Gli oltre sei milioni d’islamici che popolano la Francia, rispetto ai “soli” tre milioni del Regno Unito, sembrano dare una sponda migliore per mettere le basi di un nuovo baricentro finanziario mondiale. Così si potrà fare conto sui soldi raccolti e utilizzati secondo le leggi di Allah. Dovremo abituarci alle regole del riba – il divieto del tasso d’interesse o usura – del gharar – il divieto sull’incertezza negli affari – del maysir – il divieto della speculazione – e di tutte quelle distinzioni fra haram (vietato) e halal (permesso)? Non possiamo ancora dirlo, ma sarà bene prepararsi, visto che con i prezzi attuali del greggio alla cassa ci sono loro. Noi siamo in fila per pagare. Che impatto potrà avere una scelta del genere, visto anche il ruolo che Parigi vuol giocare nei nuovi equilibri continentali? Potrebbe essere un cavallo di Troia e la fase finale del grande progetto d’Eurabia ben descritto nel libro di Bat Ye’Or, oppure una sana iniezione di principi etici in un sistema finanziario malato e senza regole? C’è chi considera le banche islamiche un grande bluff e che la proibizione degli interessi sia in realtà finalizzata al solo divieto d’usura. Proibita dal Corano, ma anche dalla tradizione cristiana. In effetti nel periodo della tazimat, la riorganizzazione, tra il 1836 e il 1876, si importarono nell’Impero ottomano le istituzioni bancarie di stampo occidentale nel tentativo di puntellare il gigante con i piedi d’argilla. Nel 1856 furono autorizzate ad operare le istituzioni bancarie a capitale straniero, legalizzando così il tasso d’interesse. Un divieto spesso eluso anche nel Medioevo. Le strutture, cui Sarkozy sta spalancando le porte, sono invece nate cinquant’anni fa. I due fondatori “spirituali” si chiamavano Abul A’la Mawdudi, che mosse i primi passi nell’India britannica degli anni Quaranta e Sayyed Qutb, un ideologo dei Fratelli musulmani, morto nelle carceri egiziane. Non essendo pratici di questioni economiche e di fattori come l’inflazione, avevano costruito un sistema che produceva solo perdite. Poi la svolta e la nascita del concetto di compartecipazione. Nelle banche islamiche creditore e debitore dovrebbero rischiare e guadagnare insieme nella condivisione. Musica per le nostre orecchie, intasate da scandali e soprusi d’ogni genere e alla ricerca di un etica che non sia solo enunciata. Però pare che ci sia il trucco e tassi d’interesse comunque si paghino. Anche scandali e truffe non sono mancati, specialmente in Egitto, dove l’Arabia Saudita ha dovuto spesso metter mano al portafoglio per chiudere voragini e salvare il concetto di banca islamica. La prima iniziativa con rilievo funzionale viene attribuita all’economista Ahmad al-Najjar che nel 1963 fondò la cassa di risparmio di Mitt Ghamr.
Però il progetto di sbarco sul Continente dei broker del risparmio secondo Corano prosegue da tempo e non mancano iniziative di rilievo, come quella del Robert Schuman center for advanced studies, che sondano il fenomeno. Studiando lo stato dell’arte e le prospettive future della finanza e delle attività bancarie, secondo le regole della sharia. Con previsioni sull’appeal dei servizi di questo tipo, anche in vista dell’eventuale entrata della Turchia nel club di Strasburgo. Un primo appuntamento di lavoro si è visto lo scorso gennaio a Firenze, dove fra gli altri si sono incontrati esponenti dell’Abi e della United arab banks (Uab) ed esperti di università inglesi e americane. Nel settembre 2007 proprio Abi e Uab avevano firmato un memorandum di cooperazione. Ma torniamo sulle sponde della Senna per dare i numeri di quello che, semplificando, potremmo chiamare progetto Lagarde. Attualmente due colossi come Bnp Paribas e Societé Générale offrono un servizio ampio, ma non completo, di prodotti finanziari islamici. Ciò che preoccupa e che il Senato francese stia mettendo insieme politici, banchieri e giureconsulti musulmani per discutere come supportare questo nuovo modello di gestione del denaro. Un passo decisivo verso un cambiamento del quadro legislativo e fiscale dello Stato, come sottolineato sul Finacial Times del 13 maggio scorso. Una scelta quasi obbligata di un Paese ostaggio della propria comunità musulmana oppure, secondo la versione ufficiale, un mero calcolo economico. Il fondatore, nel 2004, di Isla Invest, la prima società di consulenza del settore in Francia, Zoubair Ben Terdyet è convinto che ha spingere Parigi verso gli islamic bond siano le grandi prospettive di guadagno. Insomma tutti alla ricerca del profitto moralmente corretto, Mashallah. Nella speranza che rimanga qualcosa dell’Europa, oltre la semplice carta moneta, se Dio vuole.


I soldi della sharia all’ombra della Union Jack
La crescita della banche islamiche, che sono solo una parte della finanza araba, è stato del 20 per cento all’anno dal Duemila. Le attività consolidate secondo le leggi d’Allah ammonterebbero a circa 500 miliardi di dollari secondo le stime di Moody. Anche in Inghilterra si è cercato di adeguare la legislazione per favorirne la crescita. Ad esempio la Islamic bank of Britain continua a svilupparsi nonostante la crisi delle concorrenti “laiche” terremotate dai ninja loan o subprime e prodotti collaterali e derivati. Con sede a Birmingham ha visto i suoi clienti crescere del 38 per cento nel 2007. I depositi si sono incrementati del 61 per cento in valore, fino ad un ammontare di 135 milioni di sterline, circa 169 milioni di euro. Numeri ancora modesti rispetto ai colossi del denaro, ma che sembrerebbero immuni dalle perdite che stanno dissanguando altri protagonisti del settore. Un fenomeno che non riguarderebbe solo la finanza islamica, ma più in generale le banche degli Stati del Golfo. Nella classifica dei cosiddetti writedowns – le perdite legate ai subprime – solo la Gulf international bank raggiungerebbe quota un miliardo di dollari, seguita molto da lontano dal gruppo formato dalla Gulf investment corporation e dalla Arab banking corporation con poco più di 200 milioni di dollari, poi scemando verso perdite sempre minori fino alla Saudi investment bank con solo poche decine di milioni di buco. Una tendenza che farebbe pensare più a oculate scelte strategiche che all’obbedienza teologica.

pubblicato su Liberal del 14/06/08 pag.9

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