giovedì 13 ottobre 2011

La speranza di Tunisi



La Primavera araba è cominciata in Tunisia. È stata chiamata dei «gelsomini» da francesi, ma a molti tunisini non piace questa definizione. Le sommosse sono partite il 18 dicembre 2010 con la protesta estrema del tunisino Mohamed Bouazizi che si è dato fuoco, ucciso nell’anima e nello spirito dalla continue vessazioni della polizia. La narrazione della rivolta e della ricerca della costruzione di un Paese nuovo è quella giusta. Ci sono i simboli, le spinte emotive, i risultati – è stato cacciato il dittatore Ben Alì – ma c’è la crisi economica che potrebbe alimentare nuove rivolte e la corruzione endemica. È il tempo che giocherà un ruolo determinante. La fase di transizione è stata studiata bene, assomiglia un po’ a quella italiana del secondo dopo guerra, elezione di un’assemblea costituente, nuova costituzione, poi di nuovo alle urne per scegliere finalmente un nuovo governo e un nuovo presidente. In più c’è l’Alta commissione per la realizzazione degli obiettivi della rivoluzione, ma i concetti e i passaggi istituzionali sono simili. Molti egiziani guardano con invidia al modello tunisino scelto per la transizione. E come per l’Italia di De Gasperi e Togliatti si è posto il problema della nomeklatura di regime. Un change totale rischia di sbriciolare delle istituzioni già deboli, un cambio insufficiente può alimentare ancora malcontento nella popolazione e la sensazione di una rivoluzione “tradita”. Si arriverà ad un equilibrio prima o poi. Sintomo ddel travaglio sono state le lunghe settimane di attesa e consultazioni, all’inizio dell’estate quando il governo tunisino, guidato dal primo ministro ad interim Beji Caid Essebsi, i partiti e la società civile avevano raggiunto un accordo sulla data dell’elezione dell’Assemblea costituente. Si era deciso di farle slittare al 23 ottobre, e non più il 24 luglio come previsto. La questione di fondo sulla nuova Tunisia che non è posta solo dai partiti islamici ma da tutte le forze in campo è come e quanto attuare la “defrancesizzazione” delle élite che hanno dominato il Paese dal giorno dell’indipendenza. Tenendo conto della reazione dell’Eliseo alla cacciata di Ben Alì e al successivo pasticcio libico organizzato da Parigi, non c’è da stare tranquilli sulla volontà dei transalpini di ingerire ancora sul Paese, tentando di influenzare anche la fase di transizione. Parliamo di una classe dirigente equamente distribuita nei partiti di governo e d’opposizione che ha sempre agito secondo logiche di potere, infischiandosene del bene comune. È questo uno dei passaggi chiave che determinerà la natura e il futuro della Rivoluzione dei gelsomini. L’altra questione importante assomiglia in sedicesimi a ciò che vive la Turchia: il conflitto culturale e politico tra secolaristi e movimenti religiosi. I primi temo che il partito Nahdha e i suoi alleato possano incidere nella nuova costituzione limitando le libertà personali, aprendo la strada all’introduzione della sharia. La nuova legge elettorale che favorisce la costruzione di coalizioni. Così stiamo assistendo alla nascita di tre grandi aggregazioni politiche che presumibilmente si sfideranno alle urne.
Un polo democratico «modernista» costituito da formazioni dell’estrema sinistra. Poi c’è un Partito democratico progressista di centrosinistra e infine il Nahdha la formazione di ispirazione islamica che ha il suo leader in Hamadi Jebali. Rappresenta l’islam moderato tanto da essere stato invitato al meeting di Rimini di Comunione e Liberazione. E c’è chi ci tiene a distinguere tra realtà e narrazione della rivolta. Hajar Ben Hassin è un’affermata anchor woman tunisina che lavora per la tv pubblica turca, conduce un programma d’approfondimento politico e culturale in lingua araba molto popolare nei 22 Paesi in cui viene trasmesso. «Innanzitutto non chiamiamola Rivoluzione dei gelsomini, come hanno fatto i francesi, è stata una rivolta di un popolo per riacquistare la propria dignità. I francesi non hanno alcun diritto di dare un nome a questa rivoluzione e il giovane Bouazizi si è dato fuoco perché aveva vista profondamente offesa la propria dignità».

venerdì 7 ottobre 2011

UNA TREGUA IN DIVISA Erdogan e i militari, un rapporto in evoluzione


«Se Erdogan avesse fatto prima un discorso come quello del Cairo di qualche giorno fa, non penso ci sarebbero mai stati problemi con i militari», la frase semplice, chiara, spiega bene i sentimenti dei turchi in divisa nei confronti del premier, primo leader di un partito islamico moderato a governare la patria che fu di Kemal Ataturk, padre di uno Stato che definire laico sarebbe riduttivo. È stata pronunciata da un rappresentante influente della classe dirigente militare e che oggi insegna all’Università di Galatasaray, ma che per ovvie ragioni non vuole essere citato. Liberal lo ha incontrato in una Istanbul di settembre, alla fine del trionfale tour del premier turco fatto nei Paesi della Primavera araba. In una città dove puoi toccare con mano il salto in avanti che la società turca sta facendo, spinta dallo sviluppo economico e dalla voglia di diventare un Paese “normale”. Soprattutto che vuole scrollarsi dalle spalle, con la brezza che spira dal Mare di Marmara, la polvere di un confronto tra secolarismo e religione. I turchi hanno le capacità culturali per farlo. Le incomprensioni tra l’Akp, primo partito a ispirazione islamica al governo e i guardiani dell’ortodossia laica con le stellette, vengono da lontano. Come molti movimenti in Europa il kemalismo aveva messo Dio fuori dalla storia e deciso che modernità e religione fossero incompatibili. Qui nascono le diffidenze, i sospetti, anche l’ostilità che ha portato nel tempo a uno scontro istituzionale forte tra governo e forze armate, condotto sempre sul filo del confronto legittimo, ma con molti sconfinamenti nell’autoritarismo e tre colpi di Stato. In un clima sempre pronto a degenerare in qualcosa di più serio. E l’allontanamento della Turchia dal percorso verso l’Europa (non sempre per colpa di Ankara) non ha reso più facile il dialogo. Oggi dopo lo scandalo Ergenekon – un piano per rovesciare il governo dell’Akp tra il 2003 e il 2004 – e la sua continuazione Sladgehammer (Balyoz in turco), sembra che gli anticorpi democratici che evidentemente erano latenti nel sistema politico turco stiano prendendo il sopravvento. Il governo di Ankara può aver usato strumentalmente accuse e inchieste contro gli uomini in divisa, ma qualcosa di fondo c’era e molte delle informazioni pubblicate da giornalisti investigativi come i colleghi di Taraf venivano dall’interno delle Forze armate turche. Oggi col protagonismo internazionale di Ankara, Erdogan sente la necessità di aver l’appoggio dei militari, in modo specifico della Marina per sostanziare la propria politica estera. Dall’affaire Mavi Marmara, in cui persero la vita nove cittadini turchi a causa dell’abbordaggio delle teste di cuoio israeliane, dove il premier turco ha promesso l’intervento delle fregate di Ankara come scorta di una nuova missione umanitaria a Gaza, alla vicenda delle trivellazioni petrolifere a largo di Cipro, dove è stato promesso che la marina militare di Ankara avrebbe difeso gli interessi turchi, sono ormai troppi i settori in cui il governo dell’Akp ha bisogno del sostegno di chi fino a poco tempo fa era visto quanto meno con sospetto. Tanto sta cambiando nella nuova Turchia, il previsto ritiro strategico dell’America dal Medioriente e dal Mediterraneo meridionale sta prendo nuovi spazi alla politica neo-ottomana di Erdogan, ma con gli onori del ruolo di nuovo paese leader di una regione così importante arrivano anche gli oneri: più stabilità politica interna, maggior equilibrio nell’azione esterna. Una lezione che passo dopo passo, non senza alcuni errori la nuova Turchia democratica sembra voler imparare. (clicca su immagine per completare la lettura dell'articolo)